Faccio subito una premessa, non ho mai visto alcuna puntata di entrambe le fiction (ho solo visto il deludente film di Michele Placido sulla banda), ma ho seguito tutta la serie su History Channel della "Vera storia della banda della Magliana", ben fatta e veritiera come ha avuto modo di confermare Massimo Carminati ultimo boss vivente assieme ad Antonio Mancini, tra l'altro considerato "infame" perché pentito.
Ma non voglio discutere della qualità delle proposte in sé, che sembrano ottime a leggere i commenti della critica in proposito, ma del successo che queste hanno ottenuto, ovvero della celebrazione che il pubblico ha riservato, e riserva, alle storie basate su bande criminali organizzate.
Mi riesce difficile comprendere come possano assurgere a miti personaggi che rubano, uccidono, depredano, spacciano, impongono pizzi e praticano l'usura, e mi riesce ancora più difficile comprendere come i presunti codici morali che questi criminali usano all'interno delle loro organizzazioni possano essere considerati regole su cui tutti dovrebbero basarsi.
I gadget riversati sul mercato dai produttori manifestanti soprannomi e frasi ad effetto hanno trovato incredibilmente mercato e sui social appaiono di continuo le facce degli attori con sovra impresse, appunto, queste, ultime, come se fossero verità ineludibili che la società dovrebbe prendere ad esempio; in maniera particolare mi riferisco alle frasi sull'infamità ed il rispetto nelle forme presunte che queste persone avrebbero adottato,usano, nei loro rapporti.
L'altra cosa stupefacente che risalta è l'esaltazione dell'omicidio come soluzione dei problemi che queste persone si troverebbero davanti, come se uccidere fosse la cosa più naturale del mondo e non comportasse effetti collaterali.
In una puntata della serie di History Channel, il Carminati racconta dell'omicidio di un usuraio che aveva eletto l'ippodromo di Tor di Valle come base operativa e che era anche il boss di riferimento per le scommesse clandestine; volendosi appropriare del giro la banda della Magliana decise, per l'appunto, di eliminarlo; fu uno dei primi atti che diedero poi la stura all'epopea di questa gente ora celebrata.
Il boss racconta i momenti che precedettero l'omicidio: l'ansia, la paura, il non potere più tirarsi indietro, il calcolo degli eventi successivi, la necessità di doversi da quel momento in poi di guardarsi alle spalle per il resto della vita; nulla nel suo racconto fa presumere l'enfasi con la quale questi fatti sono stati poi raccontati dal cinema e dalla televisione.
Forse sono io che fraintendo, forse è solo un momento cavalcato, magari giustamente, dai produttori di queste serie, ma se è vero come è vero che sono seguite da così tante persone deve esserci per forza un sentimento di approvazione, magari latente, per quello che viene rappresentato.
Forse inconsciamente qualcuno avrebbe voluto intraprendere una carriera criminale, o forse è solo la voglia di vedere cosa succede in queste organizzazioni, forse vengono guardate e basta; io continuo a non capire e preferisco non guardarle; non mi interessa la vita di questi signori ed hanno tutta la mia disapprovazione.
Vorrei concludere con il pensiero di Massimo Carminati nell'ultima puntata della serie; le parole esatte non le ricordo ma quello che ha detto è stato questo:
"Non capisco tutta questa enfasi per quello che abbiamo fatto. E' vero, a diciotto anni giravo per il Trullo con una Ferrari e tutti mi portavano rispetto. Ho avuto alcuni anni di ebbrezza e di potere, ma ad un certo punto ho dovuto guardarmi non solo dalle guardie ma anche da quelli con cui condividevo quelle imprese criminali e tutto sommato non è stata una gran vita. Ora sono circa trenta anni che sono in carcere e sinceramente, dopo tutto, non c'è nulla di cui andare fieri ..."
Nessun commento:
Posta un commento