mercoledì 30 novembre 2016

ORA PRO NOBIS

Sancta Maria, mater Dei, ora pro nobis peccatoribus, nunc et in hora mortis nostrae. Amen ... 

Oggi mi sono svegliato con in testa le parole di chiusura della preghiera con la quale i cattolici si rivolgono alla vergine Maria, in latino, e non nella versione in italiano, seppur io le disconoscessi totalmente.
La cosa mi è apparsa talmente strana che dopo il caffè mi sono preso la briga di controllare se fossero quelle esatte, e con mia grande sorpresa ho preso atto che lo erano; uscito per andare al lavoro i miei pensieri sono rimasti ancorati alla locuzione ora pro nobis, nel vano tentativo di comprendere il motivo di come ci fosse entrata e perché.
Assorbito poi dalla routine quotidiana, la cosa era sembrata scivolata via, ma nel momento in cui sono entrato in macchina per tornare a casa quelle parole sono tornate prepotentemente a circolare nella mia testa, inoculandomi uno strano senso di ansia nonché una notevole agitazione, pur in assenza di una motivazione seppur apparente.
Arrivato a destinazione ho deciso di fare due passi per acquietare i miei sensi scossi dal perpetuarsi della riproposizione di questa locuzione latina, che circolava nella mia testa come in un loop senza soluzione di continuità.
Passeggiando senza meta sotto casa ho iniziato a pormi delle domande alle quali non avevo, per ovvi motivi, alcuna risposta da dare ammesso che ce ne fosse una; poi, nel frullare le varie idiozie che prorompevano dalle mie acide elucubrazioni, mi è tornata in mente una frase che ho pronunciato parlando con una mia collega molto devota nonché assidua praticante dei riti cattolici.
Facendomi gli auguri per il mio onomastico, oggi è sant'Andrea, è rimasta totalmente sorpresa dalla mia risposta: pur ringraziandola, le ho detto che a me questa celebrazione appare assurda, come assurdo mi appare festeggiare la data di nascita. Ho infine anche aggiunto che un vero cattolico dovrebbe festeggiare la morte, in quanto le permette di ricongiungersi con il Dio a cui è devoto.
Al momento non avevo dato importanza a quello che avevo detto, infatti ne abbiamo riso abbondantemente, ma nel momento in cui è tornato a galla e per una qualche ragione l'ho collegato al risveglio, il tutto mi è apparso chiaro ed ineludibile.
Non sono un credente, né, tanto meno, un praticante di riti cattolici ortodossi; il mio pensiero sulla religione l'ho esternato più volte in post su questo blog e non ha nulla a vedere con la trascendenza.
Le parole che ho scritto sopra, cui mai ho dato rilievo, all'improvviso hanno preso luce e potenza pur non comprendendo ancora, mentre scrivo, il motivo per il quale ciò sia avvenuto.
Forse un giorno anche questo mi sarà chiaro; quello che mi resta di tutto ciò e che ora, pur volendo, quanto è accaduto non mi è possibile ignorarlo ...




martedì 29 novembre 2016

SI O NO?

In questi ultimi giorni dell'anno il tema dominante che sta coinvolgendo a tutti i livelli la società italiana è la proposta di modifica della legge costituzionale che sarà oggetto di referendum popolare il prossimo 4 dicembre; premetto che non essendo un elettore attivo, nel senso che non mi reco a votare da oltre venti anni, non ho alcun interesse al risultato della consultazione che avverrà a breve.
Quello che mi interessa è come la questione è pubblicamente discussa, al di là degli interessi di parte che tentano di indirizzare l'elettore dove vogliono che vada.
La Costituzione, costituita da un blocco di norme suddiviso dai Padri Fondatori in due parti (Diritti e Doveri dei Cittadini e Ordinamento della Repubblica), istituisce i Principi Fondamentali sui quali è basata la nostra attuale democrazia partendo dall'assunto decretato dall'art. 1: "L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione".
E' stata approvata dall'Assemblea Costituente il 22 dicembre del 1947 (a breve, quindi, compirà 69 anni) e promulgata dal provvisorio capo dello stato dell'epoca Enrico De Nicola cinque giorni dopo, il 27 dicembre, data della sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 298 edizione straordinaria, ed è entrata in vigore il 1° gennaio del 1948.
Ora, come tutte le leggi di cui ci siamo auto dotati, è pacifico che possa essere modificata se non interamente riscritta, in virtù di nuove esigenze che l'attuale organizzazione societaria può richiedere.
Non ha origini trascendenti, ovvero carattere immanente, non è migliore o peggiore di tutte le altre leggi costituenti esistenti, è sconosciuta alla maggior parte della popolazione italiana, e, sopratutto, è stata scritta affinché il periodo di dittatura che ha preceduto la nascita dell'attuale democrazia non possa ripresentarsi in forma legale, ovvero possa essere possibile esclusivamente tramite un'azione di forza e non  suggellato, quindi, da una votazione popolare.
Restano, dunque, parole scritte su di un foglio di carta da poche persone, che in quel determinato periodo storico si sono fatte carico di farlo, in ragione di dare un nuovo ordine ad un paese devastato dalla partecipazione alla più grande guerra mai combattuta sul pianeta; al di là del valore etico di quanto prescritto nella Legge Costituente, credo che prendere atto di ciò sia ineludibile prima o poi.
Quello che dovremmo valutare non è se modificarne una o più parti ma, bensì, se quanto indicato nella stessa abbia ancora oggi un valore imprescindibile al quale la nostra società non possa, o voglia, rinunciare.
Ho già avuto modo di scrivere come il tentativo di promulgare una Legge Costituzionale dell'Unione Europea (l'accordo di Lisbona) sia stato bloccato nei paesi nei quali l'approvazione non è stata tacita, ovvero parlamentare come nel nostro, ma sottoposta a referendum consultivo,e di come la continua cessione di sovranità alle istituzioni europee abbia già implicitamente inciso sulle regole supreme accettate nel 1947. 
La nostra società sta cambiando molto più velocemente di quanto potesse essere stato ipotizzato alla fine della seconda guerra mondiale, e l'evoluzione costante abbisogna di decisioni rapidi che l'attuale potere legislativo non può prendere in virtù dei meccanismi di approvazione cui le proposte di legge devono sottostare, appunto, in ragione delle Legge Costituente.
Credo anche che però tali decisioni debbano essere prese in forma ampiamente condivisa da un governo che abbia titolo per farlo, non quindi da quello attuale, frutto di un ignobile compromesso basato su di una ipotetica ragion di stato, che legifera in violazione della costituzione che ha proposto di modificare.
Noi scriviamo le leggi e noi possiamo cambiarle, questo non dobbiamo mai dimenticarlo. Nulla di quello che viene proposto ha origini divine in quanto prorompe da uomini e non da dei. Nulla è immutabile. Nulla, infine, può essere per sempre.
Ma nulla, direi anche, può essere proposto da chi non ha alcun diritto di farlo.



domenica 27 novembre 2016

ZENIT & NADIR


Tu sei matto ... questa è la frase che mi sono sentito dire più spesso nella vita da quasi tutte le persone con le quali ho avuto la fortuna, o la sfortuna dipende dai punti di vista, di relazionarmi con una certa frequenza, vuoi per lavoro, vuoi per amicizia, vuoi per frequentazioni di posti di aggregazione, notturni e diurni; ad un certo punto, a forza di sentirmela ripetere, ho creduto che fossi realmente un uomo dominato da impulsi irrazionali, da spunti incontrollati, da manie eccessive ed inconsuete tanto da suscitare nelle persone ilarità e compatimento.
All'inizio la cosa non mi disturbava, poi ha iniziato ad infastidirmi, poi ho iniziato a farmene una ragione finendo per accettarla in quanto tale, pur continuando a domandarmi cosa vedono le persone in me.
Ho sempre avuto una vita normale, direi: priva di phatos,  monca di eventi eccezionali, magra di eruzioni intellettuali di particolare rilevanza, orfana di atti delittuosi; eppure, per una qualche ragione che disconosco quello che faccio viene sempre vissuto come dissociativo da quella che viene generalmente considerata normalità.
Sono emotivamente instabile, questo lo riconosco,tendo all'isolamento e vivo in costanza di eccessi dell'animo, passando dal mio zenit al mio nadir in un batter di ciglia, ma tutto questo mi rende diverso?
Mi pongo questa domanda non in relazione a me stesso, ma nell'ottica di come oggi la nostra società percepisce fattualità alternative agli standard conclamati ed imperativi che la regolano, e di come la stessa li metabolizza in ragione degli stessi, stimando, così, comportamenti all'apparenza alieni al mondo che vive; non il giudizio in quanto tale, quindi, ma il metro con il quale lo stesso viene applicato.
Ho smesso da tempo di fare considerazioni di valore su ciò che le persone che frequento fanno o dicono, in quanto sono giunto alla conclusione che esternano niente altro che ciò che sono, ovvero ciò che hanno acquisito come conoscenza nello sviluppo della loro vita: sum ergo cogito, tendendo, quindi, a considerarle in un ipotetico rovesciamento del motto cartesiano.
Negli zenit e nadir delle nostre deboli esistenze, fallaci per natura e tendenti alla sopravvivenza ad ogni costo, la percezione esterna di ciò che si è è risulta, a mio parere, viziata e in molti casi priva della necessaria discrezionalità,  moderatrice della valutazione alla quale siamo incapaci di sottrarci.
Cosa sia normale o meno io non lo so, o forse non riesco a comprenderlo dal mio limitato punto di osservazione; ciò che so è che nessuno è perfetto e che è questa la grande differenza fra l'essere umano ed una macchina, che farà sempre quello che vogliamo ma non sarà mai in grado di sorprenderci ...



sabato 26 novembre 2016

WATHSAPP

L'asfalto della statale era interamente coperto dalle macchine usate dai pendolari per andare al lavoro, come tutte le mattine, le settimane, i mesi, oramai da anni.
Ilaria percorreva quella strada da dieci anni oramai, tanto che pensava che avrebbe potuto guidare fino all'azienda dove lavorava bendata.
Pioveva e questo rendeva più noioso del solito essere in quella fila infinita che non sembrava muoversi mai, come prigioniera di una sorta di incantesimo da cui sembrava impossibile evadere.
Nel mentre i suoi pensieri correvano liberi nella prateria della sua testa e lo speaker della radio continuava a proferire banalità senza soluzione di continuità, sul suo Iphone whatsapp segnalò l'arrivo di un messaggio con un gingle; Ilaria prese il telefono e lesse quanto pervenuto. Era Giovanna, che commentava la stessa identica situazione nella quale si trovava lei, solo che lo faceva dall'altra parte della città: rispose al messaggio all'istante, come reazione predeterminata da un azione.
Lo scambio di commenti continuò sino all'entrata di Giovanna al lavoro, che la salutò augurandole di arrivare prima del tramonto; Ilaria sorrise e tornò a fissare il coacervo di colori sfumati dalla pioggia e dal parabrezza inondato di pioggia che aveva di fronte e ai lati.
All'improvviso poi la fila si diradò sino a svanire, permettendole così di affondare il piede sull'acceleratore per recuperare parte del tempo perso nell'ammucchiata mattutina dei condannati al girone infernale delle statali cittadine; arrivò al suo svincolo e sospirando per il successo s'immise sulla strada di periferia che da lì a dieci chilometri l'avrebbe portata al lavoro.
Era una strada pericolosa, con la pioggia ancora di più, e buia, in quanto in parte coperta dal fogliame degli alberi che la costeggiavano, ma Ilaria la conosceva bene e la percorreva sempre con prudenza.
Si assestò sui settanta chilometri orari ed accese le luci per un ulteriore sicurezza e fece i primi due chilometri in perfetta solitudine. Poi l'Iphone segnalò un nuovo messaggio su wathsapp, Ilaria lo vide e prese il telefono, era Roberta che le chiedeva dove fosse; rispose con una certa difficoltà, in quanto alternava gli occhi fra lo schermo ed il parabrezza.
La sua amica gli recapitò subito un nuovo messaggio, Ilaria teneva ancora il telefono con la mano destra e lo lesse prontamente; la pioggia era aumentata d'intensità e fuori era ancora più buio. Una macchina proveniente in senso inverso a forte velocità le provocò un brivido mentre scriveva la risposta, in quanto la vide solo quando gli fu di fronte, facendole alzare d'istinto il piede dall'acceleratore per portarlo sul freno che sfiorò leggermente, ma tanto da far accendere le luci posteriori degli stop; non lasciò però il telefono, attendendo il messaggio successivo che le avrebbe indicato il posto dell'incontro per l'aperitivo della sera.
Il nome del locale apparse subito dopo, ma Ilaria non lo conosceva e iniziò a scrivere a Roberta di dargli l'indirizzo, nel mentre che un tir uscito probabilmente dalla sua azienda si trovava esattamente al centro della carreggiata forse per essere uscito male dalla curva precedente.
Ilaria alzò gli occhi  per guardare la strada prima di terminare l'ultima parola da scrivere e se lo trovò davanti a pochi metri dalla sua macchina; lasciò cadere il telefono per afferrare lo sterzo anche con la mano destra per avere più forza nella sterzata, che tentò in effetti, ma trovandosi con la quarta marcia innestata la macchina non reagì all'improvviso cambiamento di direzione che voleva imprimerle, e prese a scivolare verso il grande automezzo.
L'impatto fu violento, tanto da catapultarla sul sedile posteriore sommersa dai vetri del parabrezza infranto dallo scontro; si ritrovò in un silenzio improvviso senza ben comprendere cosa fosse successo.
L'Iphone le era finito accanto, proiettato anche esso dalla forza dell'impatto sul sedile posteriore; cercò di prenderlo ma non riuscì a postare il braccio, anzi si rese conto che non lo sentiva affatto.
Trascorsero alcuni minuti, poi un fiotto di sangue le proruppe dalla bocca con un violento spasmo che prima la tirò su e poi la lasciò cadere violentemente di nuovo sul sedile con la faccia proprio vicino allo schermo del telefono che continuava a lampeggiare messaggi di Roberta di cui comprese l'ultimo ,,, Ilaria What's up?
Chiuse gli occhi nel freddo che d'improvviso s'abbatté sul suo corpo esanime e in un grande sforzo riuscì a spostare il braccio sinistro fino a posare la mano sull'Iphone ...
Così la trovarono i soccorsi che arrivarono dopo circa un ora, ma lei questo non lo vide. Il suo viso inespressivo striato di sangue ora era quello di una bella e giovane ragazza che aveva sacrificato la sua vita al dio pagano della tecnologia come in un antico rito religioso per invocarne la sua benevolenza ... 

sabato 19 novembre 2016

PROFEZIA

 ... così riuscimmo, dopo innumerevoli tentativi e molte vite umane perse, ad arrivare su Marte e con il tempo a installarvi stazioni abitabili; poi iniziammo ad inviare pionieri, che costruirono i primi insediamenti umani con il fine di provare a viverci stabilmente. E così fu. Poi iniziammo a cercare materie prime per rendere possibili i viaggi di andata e ritorno, visto che non era possibile trasportare materiale dalla Terra nelle quantità sufficienti allo scopo. Trovammo quello che cercavamo, ma ben presto emerse l'impossibilità di estrarre quello che occorreva sia in quanto le risorse umane non erano sufficienti per la gravosa attività da intraprendere sia in quanto le condizioni climatiche esterne rendevano i lavori incredibilmente difficoltosi; inoltre, non era possibile trasportare dal nostro pianeta grandi quantità di persone, sia per gli elevati costi per costruire navi spaziali adatte allo scopo sia perché essendo un viaggio senza ritorno era molto complicato trovare volontari disposti a tale sacrificio, pur se in nome di un futuro possibile.
Trascorsero così circa cinquecento anni, nei quali gli insediamenti si moltiplicarono fino a rendere possible la copertura di tutte le zone abitabili di Marte; furono trasportate sul pianeta anche varie specie di animali per verificarne l'adattamento alle condizioni del pianeta rosso. Risultò che una particolare specie di scimmie non solo riusciva a sopravvivere con grande facilità nell'ambiente esterno, ma anche che il loro dna, come risultò dagli studi effettuati, si modificava dopo un breve periodo in modo tale da farle adattare alle nuove condizioni creando, di fatto, una nuova specie.
Furono così inviati due scienziati specializzati nella manipolazione del dna, un uomo e una donna, che accettarono in quanto convinti, da quanto avevano potuto studiare dai dati che venivano loro inviati da Marte, di poter creare un ibrido da ricavare dalla fusione del dna umano con quello delle scimmie marziane.
I tentativi furono molteplici, i primi ibridi creati erano poco più che scimmie, comunque incapaci di apprendere. Poi vennero create specie sempre più evolute, finché si arrivò alla conclusione che l'ultimo ibrido generato, dopo 10 anni marziani, fosse quello giusto.
Ne crearono molte migliaia, con l'intenzione che successivamente si sarebbero riprodotti da soli, come gli umani, e iniziarono ad impiegarli nell'estrazione delle materie prime nei vari insediamenti. 
Con il passare del tempo però gli umani che regnavano su queste tribù si resero conto che il loro apprendimento restava limitato e che, inoltre, gli istinti animali avevano il sopravvento sull'agire razionale che speravano fossero riusciti a ricreare artificialmente. 
Iniziò un lungo periodo oscuro nel quale le tribù degli ominidi marziali si combatterono senza sosta per l'acquisizione di fette di territorio, tanto che la situazione risultò alla fine incontrollabile per gli umani, che decisero di rifugiarsi in una stazione orbitante sopra al pianeta rosso.
Decisero, quindi, dopo feroci anni di discussioni, di cancellare la specie generata: scatenarono su tutto il pianeta esplosioni atomiche accompagnate da violente piogge di meteoriti da loro indotte grazie alla tecnologia di cui disponevano.
Prima di procedere incaricarono un ominide marziano che si era evoluto meglio degli altri di costruire un arca per salvare tutte le specie animali.
E l'inferno fu. 
Poi gli umani, dopo aver appurato che nessuno fosse sopravvissuto, scesero nuovamente sul pianeta e ripresero gli esperimenti, che alla fine ebbero successo: una nuova specie fu creata.
Nel tempo vennero costruiti su Marte insediamenti sempre più grandi, sui quali gli umani regnavano in qualità di dei.
Nei mille anni successivi furono estratte dal pianeta ingenti quantità di materie prime da inviare sulla Terra affinché gli umani riparassero i danni da loro stessi creati, finché un giorno lasciarono Marte per sempre, con la promessa che un giorno sarebbero tornati.
L'ultimo uomo che lasciò il pianeta convocò il marziano a cui avevano deciso di affidare le sorti della loro specie sul monte Tamarat, dicendogli che Dio gli avrebbe lasciato le 10 regole da seguire affinché le loro comunità prosperassero vivendo in armonia.
Il marziano si recò sul monte ed attese, finché nella notte marziana un lampo accecante rischiarò il buio accompagnato da un rumore assordante, facendolo inginocchiare come un penitente; un bagliore radiante apparve sopra di lui, rendendo giorno la notte, mentre l'assordante rumore scemava.
Un lampo di fuoco proruppe da quella luce immanente fermandosi di fronte al marziano impaurito; e scese il silenzio.
Una voce tonante gli disse di alzarsi e dal cielo caddero due enormi pietre che si posarono ai sui lati, poi cadde anche un bastone che finì nelle sue mani illuminandosi.
La voce tonante gli chiese di scrivere quello che le si apprestava a dire e così fu. Poi l'assordante rumore esplose di nuovo ed il cielo tornò ad illuminarsi a giorno per un breve momento; il marziano tornò penitente e quando fu nuovamente buio si alzò.
Le due enormi pietre di fianco a lui erano incise, il bastone volato via.
Si avvicinò tremulo alla prima pietra, prese coraggio e lesse la prima regola che Dio gli aveva dettato mentre si trovava in uno stato di trance:
Io sono il Signore Dio tuo: non avrai altro Dio fuori di me ...

CARAVAGGIO IN FUGA NELLE TERRE DEGLI ALDOBRANDINI - di Maurizio Centi


L’amico scrittore Andrea De Rossi è un uomo molto curioso, si guarda sempre intorno. Io rispondo alla sua curiosità con queste poche righe sul romanzo storico “Caravaggio in fuga nelle terre degli Aldobrandini”, edizioni Annales, scritto a quattro mani da me e da Marco Passeri.

Perché un libro Caravaggio

Perché c’è di mezzo la storia di due quadri quasi identici, raffiguranti entrambi un San Francesco in meditazione dipinto agli albori del 1600. È stato lungo il tempo occorso per l’attribuzione al Caravaggio della tela carpinetana, e invece la velocità con la quale è stato sottratto alla comunità un elemento dalla forte connotazione identitaria è stata impressionante. E ancora oggi nessuno pensa di restituirglielo neppure in prestito.
La lunga stesura del Caravaggio in fuga è andata di pari passo con una ricostruzione storica avvincente, portata a termine col massimo rigore con il supporto di diversi ‘collaboratori’ sparsi tra Roma e il territorio dei Monti Lepini, ma grazie soprattutto ai preziosi suggerimenti della Dott.ssa Fiora Bellini, Funzionario Storico dell'arte del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. Ma in fondo il libro mirava semplicemente ad affermare un postulato: che se si può ragionevolmente affermare che il quadro originale del San Francesco, come ritenuto da diversi autorevoli studiosi del settore,  era destinato al convento francescano di San Pietro, allora sarebbe bene che tornasse a Carpineto, magari in quel bellissimo Museo della Reggia dei Volsci che dispone di tutti i requisiti per poterlo ospitare.
Questo l’intento del racconto e il tentativo fatto. Ma se alla fine questa storia non avrà convinto tutti, speriamo che abbia perlomeno il pregio di voler restituire anche solo idealmente il San Francesco al luogo al quale è stato un tempo dedicato.

Il Caravaggio a Carpineto, feudo Aldobrandini

L’ipotesi che i quadro, scoperto casualmente nel coro della chiesa di San Pietro a Carpineto Romano, nel 1968, dalla storica dell’arte Maria Vittoria Brugnoli, fosse destinato al convento francescano di San Pietro, dicevamo, è del tutto plausibile.
Basti pensare che Il Cardinale Pietro Aldobrandini, signore del feudo detto Carpineto ricomprato assieme ai borghi di Maenza e Gavignano dalla disastrata casata Conti di Segni e Valmontone, assillata ormai da debiti e creditori, volle costruirvi strade, fontane, bei palazzi, conventi e luoghi di preghiera da abbellire con le opere degli artisti del momento. Ciò sia per aggiungere prestigio a quel suo feudo che per compiacere la sorella Olimpia, detta la Rossana. E poiché il Caravaggio, grazie alla sua fama già diffusa poteva di sicuro aggiungere valore a quel progetto, fu quasi certamente una committenza del Cardinale Aldobrandini per la nuova chiesa di San Pietro, ultimata a ridosso della morte dello stesso Caravaggio.
Quanto poi alla sua presenza in carne e ossa a Carpineto, pur restando aderenti ai fatti storici, abbiamo voluto riempire di immagini la zona d’ombra che va dalla fuga del pittore da Roma, a fine maggio del 1606, a causa dell’omicidio di Ranuccio Tomassoni, fino al suo documentato arrivo a Napoli nel mese di settembre di quello stesso anno.
Contenuti di pura fantasia, dunque, anche se dopo aver studiato le mappe dell’epoca non sembreranno poi così improbabili come può sembrare a prima vista.

Perché Carpineto

Qui entrano in ballo gli affetti. Oltre la mia nascita romana io ho tra le mie origini questo paese e parte del suo sangue scorre nelle mie vene. Mio padre ci era nato nel ’27 e lì ho trascorso tutte le mie estati fino all’adolescenza. La mia seconda patria. Marco Passeri è nato non distante, a Valmontone, ma ha trascorso tutta la vita a Carpineto e ci vive ancora con la sua bella famiglia. Evidentemente abbiamo entrambi voluto restituirgli almeno una parte di tutto quello che ci ha donato lui nel tempo. Gli era dovuto.
Maurizio Centi

Caravaggio in fuga nelle terre degli Aldobrandini è stato presentato a Carpineto Romano all’interno dei festeggiamenti della Sagra della Callarosta, il 29 ottobre 2016, nel Teatro della chiesa di San Pietro.
http://www.annalesedizioni.it/wordpress/?page_id=432

Colgo l'occasione per ringraziare Maurizio per la sua sempre grande disponibilità a fornirmi materiale per il mio blog e per la pagina di facebook Culture Club Albano Laziale, con l'augurio che questo nuovo lavoro gli renda le soddisfazioni che merita.

mercoledì 9 novembre 2016

NELLA BOTTE PICCOLA

Francesca aveva sempre sofferto la sua statura, sfiorava i due metri, che la rendeva, a suo dire e usando un eufemismo, poco agile nei movimenti; si rendeva conto di essere sgraziata e per quanto avesse cercato di correggere il suo portamento viveva la sua fisicità come una menomazione, una disabilità, un handicap.
Nella pubertà le avevano accollato ogni genere di appellativo estremizzante la sua altezza, a quindici anni sovrastava i suoi coetanei di quindici centimetri abbondanti, e per quanto avesse cercato di ignorarli, al limite di abituarcisi e riderci sopra, ciò le aveva causato una sorta di stress psicologico permanente che l'aveva portata a vivere la sua socialità esclusivamente nelle ore scolastiche obbligatorie e a frequentare le lezioni universitarie minime per sostenere un esame; evitava accuratamente ogni altro contatto sociale tanto da lasciare anche l'amato basket, in quanto non avendo particolari qualità da esprimere nel gioco si sentiva comunque sopportata dalle sua compagne in quanto ritenuta "una pertica" da usare nei minuti finali per tentare, magari, di recuperare una partita che sembrava perduta.
Alla soglia dei trent'anni viveva come una reclusa, con una ottima laurea in giurisprudenza di cui non sapeva che farsene in quanto nessuno la prendeva in considerazione durante i colloqui per via della sua ingombrante presenza che metteva a disagio i suoi interlocutori.
Era stanca Francesca: era stanca dei troppi libri letti, della troppa televisione che si sorbiva ogni giorno, della preoccupazione dei suoi genitori per il suo futuro, delle lunghe e sempre più snervanti passeggiate solitarie nel bosco prossimo al suo piccolo paese in collina, dei suoi dialoghi con se stessa, di quel corpo che malediva continuamente, di sentirsi diversa, di non poter vivere una vita a suo dire "normale" per quello che voleva dire, di non poter sognare di avere accanto una persona da amare; era stanca, sopratutto, delle crisi depressive che sempre più frequentemente l'assalivano lasciandola lacerata nel profondo dell'animo.
Accadde così che in un piovigginoso giorno di novembre decise di andare a vedere un film narrante una storia d'amore al cinema. Accadde così che nel primo spettacolo pomeridiano la sala fosse vuota. Accadde così che si sedette nella seconda fila, le luci divennero prima soffuse per poi spegnersi e che i titoli di coda iniziarono a scorrere sulle dolci note suonate da un pianoforte. Accadde così che il primo tempo terminò e lei iniziò a piangere mentre le luci riprendevano vita. Accadde così che si accorse che nella sua medesima fila sedeva un ragazzo e che anche lui asciugava lacrime fuoriuscite dalla proiezione delle immagini sullo schermo.
Accadde così che i loro occhi umidi di pianto si incrociarono e che nei loro visi albeggiò un timido sorriso di complicità. Accadde così che il film termino in un tipico lieto fine hollywoodiano e che si ritrovarono a uscire insieme dalla sala mentre scorrevano i titoli di coda sulle medesime note suonate dal medesimo pianoforte dell'inizio.
Accadde così che una volta fuori i loro occhi si incrociarono di nuovo alla medesima altezza, non più umidi, non più timidi, non più soli.
Accadde così che il ragazzo che aveva di fronte le tese la mano, che lei la prese, che i loro corpi si avvicinarono, che per la prima volta entrambi avvertirono una strana ed inusuale sensazione di serenità.
Accadde così che Francesca scoppiò a ridere e portandosi la mano libera a coprire la bocca disse "nella botte piccola ..."; accadde così che il ragazzo le si avvicinò fino a sfiorarle il viso e ridendo le sussurrò "c'è poco vino ...".
Accadde così, che ci crediate o no ...

lunedì 7 novembre 2016

T'AVEVO DETTO

Gino rideva nervosamente, dopo aver ricevuto un colpo cruento come un cazzotto da ko sferrato da sotto verso l'alto che colpisce il mento di un boxer mandandolo violentemente ed irrimediabilmente al tappeto; rideva per non piangere, ma l'espressione stralunata che si era stampata sul suo viso tradiva in pieno lo stato confusionale nel quale si trovava in quel lurido momento.
Aveva ascoltato l'avvocato che aveva di fronte in un religioso quanto penitente silenzio e s'aspettava ciò che poi era stato effettivamente proferito pur se in un linguaggio forbito e scevro di una qualsiasi influenza emozionale, pur tuttavia le ultime parole ricevute forarono la narcosi prodotta da quelle precedenti riportandolo improvvisamente alla vita come se gli avessero fatto una puntura di adrenalina in pieno petto mentre si trovava in overdose.
Comprese in quel lampo di lucidità di non avere via d'uscita; avrebbe dovuto affrontare un processo nel quale l'unica certezza sarebbe stata rappresentata dall'incertezza di quanto sarebbe durata la pena che il collegio giudicante gli avrebbe inferto.
L'avvocato ben comprese il momento, ne era assuefatto dalla sua lunga attività penale, ma prima di congedarlo gli rappresentò che se voleva che avesse continuato a rappresentarlo avrebbe dovuto versargli quindicimila euro antecedentemente alla fissazione della prima udienza dove si sarebbe presentato come imputato.
Gino ascoltò anche queste parole in un religioso e penitente silenzio, poi si alzò, gli tese la mano, lo ringraziò e si voltò per uscire dalla monastica stanza dove uno dei principi del foro romano riceveva i suoi clienti finiti nel mirino della legge per averla violata; costava molto, ma se aveva una possibilità di uscire da quel casino non indenne ma quanto meno con una pena minima da scontare magari ai domiciliari lui era uno dei pochi che poteva raggiungerla.
Quando fu fuori respirò una lunga boccata di aria, tirò su la lampo del giaccone, accese una sigaretta e si diresse a passo svelto verso la metropolitana; scivolò tra la gente in stato di trance, urtando qualche passante e la colonnina che divide l'entrata del sottopassaggio che l'avrebbe condotto alla fermata del treno che l'avrebbe riportato a casa.
Scese alla sua fermata nel medesimo stato ipnotico con il quale era entrato alla partenza, assente dal presente, proiettato in un indecifrabile ed oscuro futuro che per quanto si sforzasse non riusciva ad immaginare.
Si fermò al bar, ordinò un negroni, pur essendo appena le undici di mattina, e si sedette fuori, prendendo posto al tavolo rosso con la scritta coca cola sul risicato marciapiede dell'anonima periferia nella quale viveva.
Accese ancora una sigaretta, butto giù due sorsi di quello che avrebbe dovuto essere un negroni, allungò le gambe sotto il tavolo e chiuse gli occhi in cerca di un momento di quiete o di un qualcosa che comunque avrebbe potuto calmare l'agitazione che lo pervadeva; terminò il pessimo drink e ne chiese un altro, e poi un'altro ancora.
I nervi iniziarono a sciogliersi proporzionalmente all'alcol che ingurgitava, facendo transitare il suo stato da narcotico a dolcemente insensibile, o almeno così apparve al suo grande amico Filippo che lo raggiunse non appena fu informato del suo arrivo dal barista che iniziava a preoccuparsi della piega che stava prendendo quella situazione.
Gino lo vide, si alzò con difficoltà dalla sedia e lo abbracciò con la forza che gli restava, biascicando infine qualcosa di incomprensibile nel suo orecchio sinistro.
Filippo comprese all'istante come era andata la visita all'avvocato, lo conosceva da trent'anni e mai l'aveva visto bere di mattina; lo aiutò a sedersi di nuovo e si accomodò anche lui. Ordinò un campari, accese una sigaretta e fissò per un  momento il rado traffico di metà giornata restando in silenzio finché Gino non iniziò a piangere.
Filippo aspirò quello che restava della sigaretta, la lasciò poi cadere in terra e bevve in un sorso il suo campari, quindi si alzò, gli si pose dinanzi e guardandolo con fare paterno gli sussurrò: "t'avevo detto io che finiva così ...".



sabato 5 novembre 2016

QUELLO CHE VOLE VEDE'

Sofia si ritrovò d'improvviso a guardare il mare uscendo dai suoi pensieri come da un onda che l'aveva momentaneamente inghiottita pervasa da un ansia che oramai si trascinava dietro da tempo.
Faceva freddo, un vento gelido spazzava il bagnasciuga sotto un tetro e plumbeo cielo che colorava di grigio tutto quello che vedeva; l'inverno si era appena annunciato alla fine di una interminabile estate trascorsa interamente in solitudine e aveva deciso per questo di andare al mare, dopo che l'aveva evitato fino a quel giorno.
Camminava e pensava Sofia, pensava a come fosse potuto succedere che ad un certo punto della sua vita si fosse ritrovata completamente sola, senza che più nessuno la cercasse; anzi, era sempre più convinta che le persone che aveva frequentato per tutta la vita stessero cercando di evitarla, arrivando ad ignorare anche telefonate e messaggi che lasciava su telefoni e social di chi credeva fosse amica.
Ripercorreva ogni parola detta ed ogni cosa fatta, o non fatta, negli ultimi tempi, cercando un possibile motivo che l'avesse precipitata in quella solitudine ma per quanto cercasse nulla le appariva degno di essere preso in considerazione.
Arrivò così presso alcune barche da pesca in secca sulla spiaggia, trovò un vecchio e malandato sandalo di salvataggio immerso per metà nell'arenile e protetto da due grandi pescherecci ai lati; vi si sedette e continuò a guardare il mare ed a riflettere.
Poi iniziò a piangere, prima sommessamente poi via via con più vigore, accompagnando le lacrime da acuti singhiozzi che le strozzavano la gola acuendo il dolore che le era esploso dentro dopo che per troppo tempo l'aveva represso in un angolo della sua anima.
Con la testa fra le mani non si accorse subito che quel suo singhiozzare aveva attirato verso di lei una persona, che ora le era di fianco e la guardava in silenzio in un misto di sorpresa e tenerezza; vide prima i piedi, poi i suoi occhi arrossati e gonfi di lacrime entrarono in quelli di un vecchio e minuto pescatore dal volto scuro e pieno di rughe che accolse il suo sguardo con un sorriso.
Si scusò Sofia e fece per alzarsi, ma il vecchio con un lento quanto rassicurante gesto della mano la invitò a restare seduta; poi, gli si avvicinò e si sedette, infine, accanto a lei.
Non disse una parola e si mise a fissare il mare, Sofia, stranamente sedotta da quella presenza, fece altrettanto, asciugando con la mano destra l'ultima lacrima che ancora scorreva lentamente sul suo viso.
Passarono del tempo così uno accanto all'altra, in un silenzio irreale che vibrava nel vento, assorti nei loro pensieri, complici di un momento surreale avvolto di mistero e spiritualità, talmente denso da acquietarla e rinvigorirla.
Poi lui si alzò, la guardò ancora negli occhi, gli sorrise e fece per allontanarsi; Sofia ebbe un attimo di smarrimento nel buio che della sera che ora li avvolgeva e rendeva le loro figure indefinite ma prese coraggio e sottovoce chi chiede chi fosse.
Lui non rispose, si voltò e prese a camminare verso le luci di una casa prossima alla spiaggia di cui poteva intuire i contorni.
Sofia si alzò e gli corse dietro, in un tripudio di emozioni che percuotevano la sua anima di nuovo attiva dopo quell'interminabile assopimento che credeva oramai irreversibile; gli si affiancò e gli chiese di nuovo chi fosse.
Il vecchio si fermo, si girò verso di lei e le si avvicinò prendendole infine entrambi le mani nelle sue, la fissò ancora una volta negli occhi e alla fine di un interminabile silenzio le disse: "ricordati sempre che la gente vede solo quello che vole vedè ...".
Poi le lasciò le mani e gli fece scorrere orizzontalmente la mano destra sul viso, occultandole la vista;Sofia restò immobile, sorpresa da quel gesto e dal calore improvviso che sentì emanare, così tanto acceso da fargli chiudere gli occhi, da quel palmo ruvido che sfiorò il suo volto.
Li riaprì infine in un buio totale non più scosso dal vento; era di nuovo sola, ma per la prima volta dopo tanto tempo comprese che sola, in verità, non lo era mai stata ...