domenica 6 dicembre 2015

MONOTEISMO

Cristiana, Musulmana, Ebraica, sono le tre sono le grandi religioni monoteiste, quelle con più seguito di fedeli.
Devote ad un solo Dio. Unico. Indivisibile. Onnipotente.
Io non credo, ovvero credo diversamente; detto così, convengo che non ha molto senso, ma, al contrario, un senso in se lo reca.
Come sono nate le religioni?  L'idea che tutto muove a questo era orientata? Quali sono stati i motivi fondanti?
I Testi Sacri, la prima, scontata risposta. 
Chi li ha redatti? In quanto tempo? Ovvero, nei fatti narrati era presente? O tutto è stato tramandato oralmente per tempo immemore fino all'avvento della scrittura? E poi, per quale ragione quanto scritto è divenuto sacro e accettato come tale sino ai giorni nostri?
E noi, per quale ragione non mettiamo in discussione ciò? Ascoltiamo la parola del Signore senza che questi, in effetti, a noi abbia mai parlato, se mai questo un tempo sia successo. Credere, in effetti, è un esercizio di fede, e come tale ci è stato propinato per millenni. Credere sulla parola. Questo è quello che chiamiamo religione, Credere su ciò che uomini come noi, ovvero ancora piuttosto primitivi, hanno riferito in base a quello che conoscevano, con poche parole a disposizione, quando le avevano, e direi piuttosto rudimentali nella loro eccezione.
E questo ha prodotto, e produce, follie inenarrabili, perpetrate, per l'appunto, in nome del Signore che un giorno parlò.
Io non credo, ovvero credo diversamente.
Se tutto questo fosse basato su di un enorme equivoco? Se ciò che sia stato scritto, pur ammesso che sia successo, fosse stato erroneamente interpretato? Se fare cronaca, come in effetti è stato sia per il vecchio che per il nuovo testamento, fosse stato semplicemente questo?
Se i profeti, quelli che hanno parlato nel nome del Signore, non avessero ben compreso quale era la realtà che vivevano, tutto questo non costituirebbe un enorme falso storico? 
Io non credo, ovvero credo diversamente.
Se un giorno su questo pianeta fosse arrivato qualcuno che, come un mago o illusionista, avesse fatto cose inconcepibili per gli essere viventi del tempo, questi potrebbe essere stato additato come un Dio?
E se questi fossero stati più di uno, sarebbero stati appellati come Dei. E se qualcuno si fosse preso la briga di raccontare le gesta di uno solo di questi Dei e che, per una qualche ragione, questi siano gli unici testi che sono stati ritrovati, avrebbe ancora senso parlare di monoteismo?
Io non credo, ovvero credo diversamente ...


martedì 1 dicembre 2015

PUBBLICA AMMINISTRAZIONE ... MADIA E DINTORNI

Leggevo domenica sul Messaggero (una volta un buon giornale oggi veramente pessimo), comunque sempre ben attento al ciò che accade dentro e fuori la P.A., che la Ministra Madia, ovviamente solo come rappresentanza e non come legislatore,  ha annunciato con enfasi che la proposta di legge di equiparare i reati contro la P.A e quelli commessi dagli appartenenti alla stessa P.A. ai reati di mafia è al vaglio del Senato e che non verrà modificata. Bene.
Poi, l'articolo continuava sullo strabiliante fatto che nell'anno 2014 solo 220 dipendenti della P.A. sono stati licenziati per reati come minimo di concussione (che tra l'altro è già molto grave di per se) su circa 3.500.000 (numero per difetto) di impiegati nella più grande azienda italiana, e la seconda o terza d'europa, ovvero lo 0,006% del totale.
Solo 220.
Io lavoro nella P.A. da 20 anni. E lavoro nella P.A. fiscale, ovvero il top della Pubblica Amministrazione, non perché siamo i più bravi ma perché è il settore su cui fonda tutto il sistema Italia, ovvero riscossione dei tributi con caccia all'evasore.
Bene.
E' vergognoso che si possa scrivere la parola solo prima del numero 220 che di per se è un numero enorme per contare persone che hanno perpetrato reati all'interno della P.A. tanto da meritare il licenziamento e che testimonia un fatto ineludibile: la legge esistente è sufficiente per quel tipo di reati non occorre inasprirla.
Ma il paese della demagogia imperante trova facile additare tutti i mali che gli vengono contestati al personale dipendente della P.A..
Bene. Anzi, male.
I dipendenti organi della P.A sono assunti con concorso pubblico; poi ci sono i dipendenti occasionali, ovvero quelli eletti alle elezioni e quelli che lavorano con questi durante il mandato. 
Prima cosa occorre specificare bene questa dicotomia, in quanto queste ultime due categorie non dovrebbero rientrare nel computo dei dipendenti P.A. ma nel computo della politica che si occupa di P.A. e dei vari portaborse che si aggirano nei corridoi delle strutture comunali/provinciali/regionali.
Poi tornando al solo prima del numero 220, questi non è stato usato per dire "beh, sono pochi, pochissimi" come avrebbe dovuto, ma è stato invece usato per dire che "è impossibile che solo 220 persone sono state arrestate fra questa marea di delinquenti".
Beh, io sono orgoglioso di servire il mio Paese lavorando nella P.A pur sottopagato (il mio contratto di lavoro non viene rinnovato dal 14 anni).
Dirigo un ufficio con 15 dipendenti, guadagno 1.600,00 euro al mese, e fatturo circa 2.000.000 di euro al mese di tributi riscossi; in tutti gli anni passati nella P.A. a maggior rischio di concussione ho avuto il dispiacere di vedere solo una persona arrestata, condannata e licenziata fra decine di migliaia.
Viene tanta gente nel mio ufficio a chiedere una proroga, un aiuto, un consiglio, una mano, si non mi vergogno a dirlo.
E' gente che lavora e che tutti i giorni si deve districare nella giungla delle tasse.
Ma di questo nessuno parla. Di 3.500.000 persone che tutti i giorni si alzano e vanno a fare il loro dovere. Si, ci saranno dei fannulloni, degli incapaci, degli inetti (ma lo Stato fa i concorsi e lo Stato risponde di chi assume come ogni impresa), anche dei delinquenti (non posso e non voglio negarlo), ma se questo Paese tutti i giorni alza la serranda della P.A. lo deve a tutta questa gente. Non vogliamo un grazie. Ma rispetto si, questo, credo, che sia dovuto.

martedì 15 settembre 2015

DIARIO PERSONALE - COMMENTO DI UNA LETTRICE

Ho ricevuto questa mail da una lettrice a seguito del mio post "DIARIO PERSONALE - 18 AGOSTO" e gli ho chiesto il permesso per pubblicarla ... mi ha profondamente colpito per la sua intensità ...


Carissimo Andrea profondo amico mio, ho letto il tuo diario personale. Mi spiace sentirti scrivere che stai giù. Vorrei in qualche modo aiutarti . Dunque mi viene da dirti che forse dovresti riflettere su quanto sto per scriverti.  Fino a quattro anni fa come il resto degli esseri umani ho vissuto con la sensazione che la vita fosse in mio possesso, ho vissuto con quell' illusione comune solo a noi umani di essere immortale. Ho pensato di avere tanto e tanto tempo ancora per poter fare tutto ciò che volevo. Ho viaggiato anche io come un treno senza guardare mai troppo attentamente fuori dal finestrino. Pensavo a volte di essere sfortunata perché nella vita ne avevo passate tante: perdita di parenti e amici, un divorzio, una seconda separazione, delusioni in amicizia ed amorose varie, un cattivo rapporto con mio padre che mi ha tormentato per tanto tempo, depressione e mali dovuti alla somatizzazione di tutto questo. Insomma tutto ciò fino a quattro anni fa, quando allo scoccare dei miei quarantuno anni e mezzo di età un bel giorno ho scoperto di avere il cancro: carcinoma multifocale infiltrante duttale della mammella sinistra. Che brusca inchiodata ha fatto il mio treno! Improvvisamente ho dovuto cambiare mezzo. Sono scesa dalla mia "freccia rossa" per salire sul treno che mi portava verso il lungo cammino nella malattia e da lì è ripreso un nuovo viaggio, che all' inizio ti confesso mi ha terrorizzata al punto da farmi cadere di nuovo in uno stato depressivo. Ho avuto crisi di panico ed ansia con attacchi diurni e notturni. Pensavo : "forse non scenderò più da questo treno e forse nemmeno ripartirò' ". Effettivamente sapevo cosa avrei affrontato in seguito solo attraverso i racconti di altri e conoscevo l' ipotetica durata di questo mia nuova avventura: un anno per venirne fuori se mi avesse detto bene. E dunque con la paura e l 'incertezza, sotto le macerie del mondo che mi era improvvisamente crollato addosso, mi sono rialzata e sono salita su questo nuovo treno. Subito dopo l' intervento del 27 -12-2011 è iniziato il mio calvario. Dovevo risvegliarmi dall' anestesia senza tumore e con un seno nuovo. Invece qualcosa era andato storto. Aprendomi avevano trovato l ' ottavo carcinoma sul muscolo gran pettorale così l'asportazione di quest'ultimo aveva impedito la ricostruzione immediata del mo seno. Dunque senza seno sono uscita dall' ospedale dopo quattro giorni con la disperazione addosso. Quella che credevo fosse la parte più bella di un donna, simbolo della mia ed altrui femminilità, non c 'era più . Mi sono disperata. Quello che ho scoperto subito dopo è che i malati vengono uccisi prima dalla burocrazia e poi dalle loro patologie. Si perché in breve scoprii che per avere una protesi dalla USL avrei dovuto aspettare quasi due mesi per doverla infine anche pagare per la metà del suo valore. Così nello stesso giorno ho optato per una soluzione più rapida sono andata in un negozio di sanitaria ed ho acquistato un reggiseno con una protesi posticcia in silicone di cui fino a quel momento non conoscevo l' esistenza . Da qui dopo un mese di drenaggio e medicazioni il 30 gennaio ho iniziato la chemioterapia. Il mio fisico subiva ulteriori trasformazioni. Ad una settimana scarsa dal primo ciclo i miei capelli hanno iniziato a cadere a pioggia. Ecco i capelli- altro emblema della femminilità- improvvisamente rasati a zero. Ho capito solo allora quello che avevo letto nei libri. Ho pensato al l'umiliazione delle donne , dei bambini e degli uomini vittime dei lager : violati ed offesi nel fisico e nello spirito. Da qui è iniziato il mio vero calvario. Il mio treno lento, sempre più placido , continuava a procedere di pari passo con la lentezza e l ' immobilità dei giorni di dolore trascorsi dentro a letto. Quindici giorni al mese annientata , ferma e dolorante. Dopo ogni chemioterapia una settimana di sofferenza , due per riprendere la vita quotidiana e poi di nuovo la chemioterapia. Otto cicli , uno ogni ventuno giorni. Ogni giorno più pesante dell'altro, due settimane al mese dentro al letto e due in piedi : una vita a metà! E alla fine dopo sette mesi altri due mesi di radioterapia. Venti sedute! Non posso più prendere il sole per il resto della mia vita dopo tutte quelle radiazioni. Insomma è trascorso proprio un anno come mi era stato detto, ma per rivedermi quasi normale ne sono dovuti trascorrere tre perché in seguito ho dovuto subire altri due interventi chirurgici per farmi ricostruire la mammella. Oggi ringrazio Dio perché sono ancora qua. Vivo con una spada di Damocle in testa, continuo a viaggiare sullo stesso treno senza più fretta di divorare la vita ma piuttosto con la voglia di assaporarla piano. Senza affannarmi al pensiero di dover riuscire a fare quello o quell'altro, mi fermo a guardare fuori dal finestrino apprezzando tutto ciò che passa di fronte ai miei occhi: ogni giorno, ogni istante, ogni singola esperienza, ogni contatto umano, ogni giorno di sole o di pioggia, ogni alito di vento nei capelli e sulla pelle , ogni passo che riesco a fare senza più avere addosso la pesantezza e la debolezza della malattia. Con la consapevolezza che un giorno la spada di Damocle che ho sulla testa potrebbe cadermi addosso di nuovo, procedo con la gioia nel cuore, perché la malattia mi ha illuminata. Ho realizzato per fortuna che il mio calvario è stato più breve di quello di tante altre persone. Ho capito che il mio vero io, la mia femminilità, la mia qualità di persona non è nella mia immagine - come sono abituate a pensare tante persone che vivono solo di apparenza. Ringrazio Dio perché attraverso il mio dolore ho capito il dolore di miliardi di persone che hanno la sfortuna di confrontarsi con la malattia sin dal primo giorno della loro esistenza . Lo ringrazio perché so cosa provano le persone anziane verso cui nutro profondo rispetto e amore. Oggi conosco i loro limiti, la frustrazione che dà loro l 'essere dipendenti dagli altri e il doversi lasciare accudire. So cosa vuol dire avere il motore di una Ferrari e la carrozzeria di una malandata cinquecento: hai voglia di correre e divorare la vita ma no ce la fai. Ho compreso quante cose bisogna tralasciare nella vita che non sono importanti per essere davvero felici. Ecco dunque ritengo dopo questa esperienza che se hai la salute nella vita puoi affrontare tutto il resto con la leggerezza di chi viaggia senza bagaglio, tutto si risolve tranne la morte. Perciò amico mio esci da questo stato perché hai già tutto quello che puoi avere per essere felice . Esci da questo buco nero e guarda fuori di te perché c ' è tanta più luce di quanta tu ne immagini o ne stia cercando. E se per completare la tua vita mancasse una donna sono certa che nel ritrovare la tua positività anche questa verrà. Ti saluto con la speranza di non averti annoiato e di poterti essere stata d' aiuto. Ti abbraccio con affetto. Ciao a presto!

domenica 30 agosto 2015

IL MIO SENSO OTTUSO

Recalcitrante a smettere di pensare continuo a sbattere contro il mio senso ottuso, come in un gioco virtuale per il quale non trovo la password per accedere al livello successivo.
E tento, imperterrito, di cercare di violarlo inanellando un insuccesso dietro.
L'apparente sinossi di ciò che mi è chiaro non trova mai la parola fine, ogni volta che riconsidero il tutto nello schema che vivo al momento che lo faccio.
E' un circolo vizioso, nel quale aggiungo ogni tanto una nuova convinzione che non si rivela tale al momento di riconsiderarla, e il tarlo del dubbio sistematico torna prepotentemente a manifestarsi in tutta la sua virulenza, e il mio senso resta ineludibilmente ottuso.
Non c'è nulla di definito, chiaro, limpido, argomentato. Tutto è sfumato nell'incertezza delle variabili che cambiano e le soluzioni alle equazioni ad un certo punto appaiono illimitate.
Catturo pensieri organizzandoli in file nel mio sistema operativo dentro il mio hardware, cercando, poi, collegamenti fra loro seguendo un istinto matematico di priorità e definizione e, ogni tanto, giungo pure ad un risultato, che si rivelerà, appunto, incompiuto a fronte di una nuova informazione.
L'unica certezza che mi appartiene, a questo punto è chiara, è la mia ottusità nel cercare di vedere nelle cose della mia vita.
Mi resta anche la convinzione di subirle in maniera trascendente, inevitabile, come se nulla potessi nei loro confronti.
Ma il mio senso ottuso sviluppa, di contro, questa ricerca, seppur non ossessiva, per quanto filosofica nell'approccio, e mi stimola di continuo a non mollare.
A volte mi causa sofferenza, a volte mi eleva spiritualmente, a volte mi lascia completamente indifferente, come se avvenisse meccanicamente.

Se caduco o infinito forse non mi verrà mai dato da sapere, e forse è proprio in questo limbo risiede il senso acuto, stella polare e meta dell'homo sapiens in quanto tale ...

giovedì 27 agosto 2015

LA MIA IDENTITA'

Chi sono io?
Un puzzle di medioevali vetri colorati tendenti a formare un immagine che tarda a palesarsi, pur nell'inondazione della luce del mattino che filtra dalla fessura posta in alto della sacra navata, pur nell'offuscato e flebile tramonto che esalta i vetri opachi, pur nel buio della notte che tutto copre, anche il silenzio divino.
Chi sono io?
Un rutilante florilegio di errori ripetuti, postumi e futuri, attuali, sempre uguali, stentorei, seppur non invadenti, maniacali, seppur non ossessivi, ostentati, seppur involontari.
Chi sono io?
Una depressione del lato oscuro lunare, apparentemente disabitato, ma fertile e progredito, vivo, satellite occulto e tecnologico vigilante ed equilibratore del pianeta.
Chi sono io?
Una macchina biologica perfetta nella sua imperfezione, bella nella sua perfezione, misteriosa nel suo intercedere, prevedibile nelle sue debolezze, calibrata nelle sue capacità, esplosiva nella sue elucubrazioni, piatta nelle sue aspettative.
Chi sono io?
Un monarca illuminato, un despota feroce, un imperatore folle, un re ininfluente, un coacervo di tutto ciò,  una miscela instabile in cerca di un detonatore.
Chi sono io?
Una metastasi orgiastica di desideri, sogni, idee, di follie e repressioni, di silenzi perpetui e discorsi logorroici, di nulla di tutto ciò e di tutto quello che ho ricevuto in dono, di perseveranti abissi di solitudine e mute rituali compagnie.
Chi sono io?
Il serpente avvinghiato all'albero nel giardino dell'eden, donatore di conoscenza e per questo vituperato e condannato agli inferi dalle umane sacre scritture non prorompenti dal divino.
Chi sono io?
Un pleonastico senso ottuso, un cadente corpo mortale, un incidente di percorso nella via lattea, un dolore incolore, un'enorme sbadiglio, uno sbaglio, un fulmine senza tuono, una luce accecante, un silente meteorite in cerca di un'attrazione celeste, un carico pendente, una motrice senza rimorchio, un incompiuto.
Chi sono veramente io?


mercoledì 26 agosto 2015

IL MIO TEMPO

Cerco di ricostruire il mio tempo, in un contesto statico, soporifero, inerte, nel lascivo scorrere di quello che consideriamo tale, tracimando dall'ossessione all'osservazione, nel dipanarsi degli anni frantumati nei giri perpetui del pianeta attorno alla sua stella.
Consapevole della caducità  che gli è propria pur nell'apparente infinità, lo riconsidero metabolizzandolo nel suo incedere, lento prima, inesorabile dopo.
Mi corrode, ma non mi da più ansia, è questo il grande cambiamento. Ora sono capace di attendere, calmierando quella frenesia che lo ha contraddistinto, facendolo volgere nell'assaporarlo.
Pur correndo apparentemente mi sembra si dilati, invece, in un senso di un'ampiezza che mi era sconosciuta prima, e riesco a renderlo mio, compagno di un cammino che è entrato in una nuova dimensione, statica, vero, soporifera, vero, inerte, vero.
Ma certa, viva, indissolubile.
Certa, in quanto esistente; viva, in quanto continua; indissolubile in quanto eterea.
Ci nuoto dentro e posso plasmarlo invece di subirlo e lasciarmi plasmare; sembra nulla ma tutto cambia: prospettiva, esegesi, contaminazione.
Uno specchio deformante di una realtà non più assoluta, ma relativa, condizionata, vellutata anche nell'asprezza e morbida anche nella durezza.
Nel suo correre ora il mio tempo non ha più tempo, arrestandosi in momenti che mi portano a ricalcolare la mia posizione nell'universo che muove verso un punto prestabilito, certo nell'incertezza, consapevole nell'ignoranza, pragmatico nel futile.
Il tempo ora ha tempo, quale significato estremo del significante, ancora puerile e ottuso, certo, ma chiaro,  abbagliante nel suo manifestarsi.
Non mi viene più di voltarmi dietro.
La linea dell'orizzonte non è più così lontana, irraggiungibile.
Si può, si deve, si vuole,

Accetto il tempo, ora, nel mio apparente immobilismo, perché muovere non è più dinamico ma celebrale, e questo, questo rende il tutto meno esoterico ...

venerdì 21 agosto 2015

ROMA - MONACO DI BAVIERA - PRAGA - BERLINO - ROMA . Capitolo 6 - FINALE

(cronaca di un viaggio in treno avvenuto nell'anno di grazia 2006 - vedi post precedente del 29 giugno 2015)


15  agosto Berlino

Percorriamo questa sconfinata città in tutta la sua interezza, uscendo e entrando nelle sue viscere, visitando quello che viene incontro a noi con curiosità e sorpresa. Questo immenso cantiere che pulsa di voglia di vivere, ma che non vuole dimenticare, che ha voltato pagina, ma che lascia bene in vista lo stupro continuato e aberrante che ha subito, accogliente e disponibile con i suoi ospiti, gentile, sorridente, cosmopolita, educato.
Un piacevole e continuo palesamento di eccellenti qualità, che affiorano ad ogni minimo contatto e soffio di vento, sotto uno dei cieli più belli che mi sia mai capitato di vedere.


16 agosto Berlino

Quello che resta del muro è lì, dinanzi a noi, in tutta la sua devastante ossessione. Lastre di cemento una accanto all’altra. Invalicabili. Mostruose. Costruite per dividere. Quello che non si può dividere. Che solo il genio perduto della razza umana poteva concepire. A completamento della sua follia. Della sua incapacità di dialogo. Di amare.
Oggi è colorato dai graffiti che testimoniano lo scempio compiuto.
Opere d’arte emotive. Devastanti nella loro semplicità. Comunicative. Espressive. Pacifiche.
Alcuni comperano souvenirs.
Anche noi.
Stancamente.
Sopraffatti.
Vinti.
Mentre prendiamo sempre più coscienza su Berlino annotta.
Persi nei nostri desideri e contaminati da persone momentaneamente lontane anneghiamo in due birre. E nell’erba. E nell’augurio sincero che quello che i nostri occhi oggi hanno visto per le generazioni future non possa mai più diventare un terribile presente.
Notte umida.
La città lentamente si spegne.
Noi lo stiamo facendo.


17 agosto Berlino

 Percorriamo le ultime strade della nostra vacanza trascinandoci sotto un sole solenne. Ebbri di tutto quello che abbiamo ingerito e metabolizzato. Ricostruiamo puzzle mentali durante il nostro intercedere nelle ultime visite. Finiamo a fumare erba sull’incredibile prato di Rosenthaler. Fra indigeni che prendono il sole. Non c’è un turista, per fortuna. Fumiamo e fumiamo. E restiamo lì, a goderci l’ultimo scampolo che Berlino può regalarci nella sua quiete vorace, nella sua calma vellutata,  in quello che percepiamo e che non dimenticheremo.


17 agosto notte Berlino

Fra qualche ora il cielo sopra Berlino vivrà nei nostri ricordi, fra scatti rubati, video, sorrisi, silenzi, lunghe conversazioni epistolari, a viva voce, agnello per cena e camminate sulfuree, pannelli per testimoniare urla che vibrano ancora nel silenzio iridescente di una strada che ne tramanda l’eco.
Ecco. Fra qualche ora un aereo ci riporterà da dove siamo venuti. Dove ci stanno aspettando.
La coscienza ora è chiara. Pulsa di vita propria. Germoglia sul nostro passato. Che non vogliamo dimenticare. Che ha fatto di noi quello che siamo. Ma che ora dobbiamo abbandonare al suo cammino. Cosa ci resta se non l’amore. Che stiamo riportando alla luce. In un restauro senza nevrosi. Armati di pennello. Che toglie polvere che ha oscurato i nostri cieli. Intossicandoli. Avvelenandoli. Ma il vento leggero che ci ha sempre permesso di respirare e restare in vita adesso è divenuto un tornado. Che avanza maestoso in un turbinio di luce e spazza quella nube nera. Aprendo squarci d’azzurro, da dove filtra limpida purezza.
Cadiamo in un breve sonno.
Sogniamo.
Al risveglio F. è là che aspetta.
C. aspetterà un giorno in più.
Ma a questo punto il tempo non ha più la stessa importanza. Non è più tiranno. Non asciuga più le nostre debolezze. Né può strizzarle. Continuerà a tirare via giorni alla nostra vita. Ma sarà piacevole vederlo lavorare.

E quello che conta è che non saremo da soli a farlo.  

mercoledì 19 agosto 2015

ROMA - MONACO DI BAVIERA - PRAGA - BERLINO - ROMA . Capitolo 5 -

(cronaca di un viaggio in treno avvenuto nell'anno di grazia 2006 - vedi post precedente del 29 giugno 2015)

13 agosto Berlino, sera.

Appuntamento al Check Point Charlie, alla garritta, trovo fra i messaggi ricevuti. È di mio cugino A. in vacanza da queste parti.
Gli rispondo se mi sta prendendo per il culo.
E' un posto famoso …”, continua a scrivermi convinto.
Siamo a Berlino da venticinque minuti, una maggiore precisione ...?” digito sul mio cellulare rosso da donna, con la scritta Elle che non so bene perché lo uso, e dicendo a G.:
- Questo è proprio un fattone, guarda che cazzo di appuntamento ha cercato di darmi … Check Point Charlie, non ci dorme la notte … che fattone …
- D’altronde è tuo cugino dice laconico G. mentre tira su i jeans.
- E' proprio tuo cugino. …. E ride.
Viene da ridere anche a me.
Dieci minuti dopo lampeggia sul piccolo schermo della mia possibilità di comunicare con persone lontane, che premendo un tasto può diventare uno specchio,  l’indicazione di una linea metro e la stazione di fermata.
Reattivo, se non altro.
Il rendez-vous è alle cinque e trenta. Bagnati ma puntuali ci infiliamo in un fast-food iraniano, credo. Chiediamo due hamburger. Ci consegnano, chiavi in mano, due dischi volanti. Io ne mangio metà, nonostante non abbia assimilato nulla dalla sera precedente. G. se lo divora. Nel mentre spuntano in tre. A. e due suoi amici. Dopo i convenevoli di rito e chiesto dove acquistare erba, Rosenthaler ci viene riferito, viriamo tutta a dritta al museo giudaico. All’entrata si accodano a noi una pankettona abruzzese che vive a Berlino da ottobre scorso ed una buffa cinese che parla solo in inglese.  Guidati dalla calda e calma mano della marijuana ci immergiamo nell’epopea degli ebrei berlinesi. Dalle origini all’olocausto. Fra oggetti e foto, ritagli di giornali e sacre scritture, un terrificante filmato di nulla in tridimensionale e l’angosciante torre dell’olocausto, dove entri e una porta ti si richiude dietro, lasciandoti in un chiaroscuro soffocante, in cui da una fessura in altro filtra un debole luce sfiancata dalla pioggia e dietro le nostre spalle attaccata al muro c’è una scala che nessun umano di normali dimensioni potrebbe mai raggiungere. Ci assale una fastidiosa forma di panico che muore nell’angoscia. Se voleva questo chi l’ha costruita ha ottenuto il suo risultato.
Almeno con noi due.

Due cose sono infinite. L’universo e la stupidità degli uomini
 (A. Einstein)

All’uscita troviamo la cinese seduta con la testa fra le mani.
"Cazzo, deve proprio averla colpita questo posto", penso io mentre mi siedo al suo fianco.
Forse la torre ha avuto su di lei un effetto ancora maggiore di noi. Abbozzo un timido tentativo di indagine. La cinese mi risponde che no, ha solo fame ed è stanca.
Mi viene da ridere.
Poi il resto della truppa si ricongiunge. Fumiamo altra erba nel tragitto che ci porterà a cena. Prima però facciamo una tappa a Rosethaler per rifornirci.
Finiamo in un ristorante libanese. La caratteristica è questa: ti siedi fuori, poi decidi cosa mangiare, entri, ordini, passi al frigo e tiri su quello che vuoi, torni a sederti, ad un certo punto quello dal banco urla il nome del piatto, o dei piatti, ti alzi e te lo vai a prendere.
Ovviamente tutto questo avviene nell’incomprensibile, per noi e la cinese, lingua tedesca che invece la pankettonaabbruzzesemaresidenteaberlino manovra con estrema disinvoltura.
Abbiamo ordinato, grazie a lei che ci ha tradotto i menù, carne di agnello in salse varie. Un’ottima scelta a giudicare dalla voracità con cui i nostri piatti tornano a mostrare il fondo.
O più semplicemente fame tossica.
Ma per lo stomaco cosa cambia?
Voleva ed ha avuto.
Sapore e gusto abitano ad altezze per lui irraggiungibili. E probabilmente neanche le vuole raggiungere.
Chiudiamo, involontariamente, la notte in un ritrovo gay. Se ne accorge A. guardando le coppie che sono sedute nel locale. Uomouomo donnadonna.
Poi arriva il cameriere. Anellino al naso e bicipiti in mostra. Tagli degli occhi orientale. Parla flebilmente con la pank al nostro seguito, che contemporaneamente parla con lui in tedesco, con noi nella sua lingua madre e con la buffa cinese in inglese.
Come cazzo ci riesce”, dico io, eccitato ed affascinato dalla pankettona.
Che cazzo volevi che facesse su quelle cazzo di montagne in Abruzzo d’inverno …” mi dice sorpreso G., come se l’equazione sei dell’Abruzzo parli tre lingue sia alla base della matematica moderna ...
Però, in effetti ...
Poco dopo arrivano le birre.
Entra una coppia etero.
Sono fuori in due minuti.
Noi da prima.
La metro chiude le porte.
Noi gli occhi.
Buonanotte.    

14 agosto Berlino

Il sole risplende alto ed imperiale, almeno da queste parti. La canna mattutina permea di tranquillità i nostri spiriti. La pianta della metro è quasi sempre capovolta. Ma visto che lo siamo anche noi la cosa funziona a meraviglia. Arriviamo alla porta di Brandemburgo giusto in tempo per l’appuntamento con le napoletatine conosciute alla stazione ferroviaria di Praga. Bacini e via, sul lungo viale che ci condurrà dall’angelo esultante per la vittoria di una guerra, non ricordo quale visto che la Germania ne vanta parecchie nel suo curriculum vitae. Ci arrampichiamo a fatica nel ventre dell’angelo su di una ripida scala a chiocciola. Io arrivo ultimo. E scendo per primo. E aspetto. Che si rolli una canna. Che questa giornata prenda la giusta aria. Che il nostro mondo cambi prospettiva. Che la smettano di spararsi addosso. Per le prime tre posso garantire. Per l’ultima la speranza è sempre l’ultima a morire.
Ci facciamo una canna.
Entriamo in sintonia con gli elementi naturali.
Ognuno di noi ha il suo punto di vista.
Da qualche parte del globo però sembra che ancora si sparino.


14 agosto pomeriggio Berlino

Su di una arabescata nuvola attraversiamo la città, from est to ovest. Fra pazzesche risate fino alle lacrime e strade sotterranee da ricercare. O in sopraelevata. Destinazioni che si incrociano in punti di scambio, valutazioni se prendere l’ autobus, orari ed una birra ogni tanto. Nella splendida atmosfera berlinese. Fra biciclette e residui  del movimento punk, porsche cabriolét e autobus lindi, corse ai semafori pedonali, che durano non più di tre secondi e alla nostra velocità rischiamo ogni volta di finire nelle grinfie di qualche automobilista assetato di sangue, e file agli stessi, perfettamente incolonnati, smarriti fra i cieli di morbidi palazzi in perfetta sintonia con l’ambiente che li circonda e suonatori di violino nelle stazioni delle varie linee della metropolitana.
Le napoletatine si divertono. Noi anche.
Berlino lo stesso, sembra.
Le berlinesi sono bone.
L’erba pure.
Vediamo il cartellone del Vladimir Luxuria locale candidato per le amministrative berlinesi.
Un riposino?” viene buttato lì da qualcuno nell’ultima pausa prima che scenda la sera su Alexanderplatz.
Ci accordiamo con V. e S..
Appuntamento alle dieci.

See you after.


14 agosto notte Berlino

Mangiamo un’ottima pizza in un quartiere elegante della città. Poi ci sediamo in un lunge bar poco più avanti. Mi costringono a bere un qualcosa chiamato sexonthebeach, visto che ne avevano parlato a cena le napoletatine, esaltandone il gusto.
Era meglio il mio solito negroni.
Stranamente, o forse solamente stanchi, non chiediamo il bis o qualcosa di diverso. Dalla fontana sulla nostra sinistra all’interno del locale arrivano spruzzi d’acqua. Dalla stufa alla destra un rassicurante calore.
Una splendida valchiria bionda nei pressi dell’uscita, e in attesa del resto della sua compagnia, mi guarda più volte. Io contraccambio aggiungendo un sorriso. Arrivano le sua amiche. Hanno un cenno d’intesa. Poi lei, mentre si volta verso la sua direzione, mi regala il più adorabile fra i sorrisi che ho ricevuto in regalo finora durante la mia piccola traversata della mittleeuropa, aggiungendo un delicato saluto con la mano.
Guardo verso l’orizzonte e sospiro. G. V. e S. sono in silenzio.
Che ci accompagnerà fino al punto di scambio.
Noi un treno.
Loro un altro.
Bye bye.

martedì 18 agosto 2015

DIARIO PERSONALE - 18 AGOSTO 2015

Non riesco più ad arginare la mia sindrome depressiva, mi sta trascinando via sempre con più violenza, annullando tutti i miei sforzi per farlo.
Sono circa dieci anni che languo su questo fottuto saliscendi, miscelando giorni di isteria, con altri di frenesia, con altri ancora di psicopatica calma, con, infine, altri, rari, di tranquillità, che oramai assimilo alla felicità.
Da qualche tempo, poi, gli altri sono divenuti sempre più rarefatti, sempre più sbiaditi, sempre più lontani, così come ciò che mi dava sollievo, la mia famiglia, i miei amici, i miei libri, il mio studiare senza tregua, il mio lavoro, la mia squadra del cuore, il mio mare, la mia televisione.
Vivo in un isolamento perenne, statico, monolitico e ne sono assuefatto. Nulla mi smuove e nulla mi da più eccitamento, proprio come una fredda pietra che si erge in un deserto a guardia del nulla.
Vivo ogni giorno come il precedente e nulla mi aspetto per il giorno successivo, anche se indicato dal calendario come giorno di festa.
Come uno zombie scevro di volontà ripeto in maniera automatica i miei gesti, i miei rituali, i miei pensieri, che mi corrodono il cervello ossessivamente, rimbalzando in ogni suo angolo, frantumandosi, infine, in un nulla molto ben strutturato.
Ogni tanto rivolgo lo sguardo verso un confine immaginario immaginando di poterlo un giorno oltrepassare studiando mosse appropriate; ma mi ritrovo sempre allo stesso punto di partenza, solo sempre più sfinito e con meno voglia di farlo.
E mi lascio trascinare da questo non senso, privo di logica, privo di razionalità, privo della scintilla che rende un corpo biologico un essere umano.
Pur percependo come la deriva sia oramai prossima non riesco ad ancorarmi per impedirlo, l'ancora è troppo pesante per le mie ridotte forze attuali.
Così ho iniziato a chiedermi cosa sarà della mia vita e non ricevendo nessuna risposta ho iniziato a fissare obiettivi a medio termine per darmi una ragione per continuare; ma più li raggiungo, quasi sempre, più non ne ricevo dietro nulla, è come se quello che facessi sia così scontato, più devo fissarne altri a breve cercandone non fra gli impossibili ma fra gli improbabili, per lottare contro i miei mulini vento che sono illimitati.
Ma questa ossessione non mi sembra altro che un'altra fra le mie e stento a credere che mi porterà a un qualsiasi risultato soddisfacente.
Percorro una strada apparentemente sicura in una giungla insicura e qualche volta tutto questo mi fa paura; non riesco a vedere nel mio futuro e dimentico in fretta il passato, vivendo nella nenia del presente.
Ci saranno tenebre o luci?
Forse, dico forse, questa è l'unica risposta che non voglio avere ...





giovedì 13 agosto 2015

NA' SCARPA E NA' CIAVATTA

Fa’ ncallo da madonna … Sto co’ sto vestito tutto punto a girà pe’ Roma co’ la moto che me paro un matto … ‘Ndo me giro me giro vedo gente smutannata e tutti, proprio tutti, stanno ‘nciavatte … io sotto ar casco c’ho la testa che me brucia … a camicia bianca sotto la giacca blu è pallida de sudore … i piedi dentro i mocassini, seppur estivi, me vanno a foco .. e più guardo quelli ‘nciavatte e più me rode er culo.


Ogni semaforo n’agonia lenta, na’ tortura.

Poi me viene in mente na’ cosa, forse perché i neuroni sotto ar casco stanno in ebollizione e la maggior parte se so’ bruciati irreversibilmente; insomma, m’è tornato in mente Brutti Sporchi e Cattivi, mirabile film con Manfredi (che avrebbe meritato l‘oscar) sulla Roma periferica fine anni cinquanta, fatta de baracche in lamiera su strade sterrate che diventavano fango co’ la pioggia e deserto porveroso cor sole.

E la dentro gente che viveva d’espedienti; ‘nsomma de lavora’ nun se ne parlava proprio, parte perché nun c’era parte perché nun c’era fantasia.

Ner firm c’è na scena in cui Manfredi, ubriaco già de primo mattino, trascinando i piedi pe tentà de camminà se perde na’ scarpa dentro ‘ntombino, me pare, e continua co’ na’ scarpa sola, e m’è tornato in mente er detto: Na’ scarpa e na’ ciavatta.

E’ un modo de dì romano pe indica chi c’ha poco o niente … Na’ scarpa e na’ ciavatta … t’arangiavi co’ quello che c’avevi se c’avevi.

Stò a sto’ semoforo sur lungo Tevere … ar ponte che porta dritto a Porta Portese uscenno da Testaccio; sull’argine der fiume che vedo sotto de me s’entravedono baracche e resti de baracche, dove nun ce metterei a firma che ce vivano solo extracomunitari e sbandati in generale … è vero, so’ zozzi, so’ brutti, no o so se so’ cattivi … ma stanno ‘nciavatte … o co’ na’ scarpa e na’ ciavatta.

Ma quanno er semaforo me da er via libera e riparto me viè da pensa che pure tanta brava gente oggi se trova in condizioni disperate o al limite dell’indigenza pe sto’ periodo storico riluttante ar benessere ‘mpò pe’ tutti e oramai preda di pochi … Na’ scarpa e na’ ciavatta … ma no perché fa callo … e d’improvviso tutte le bestiemme dette strada facenno me tornano dietro e me schiaffeggiano … ma no’ pe l’insolenza verso Nostro Signore, ma pe mancanza de rispetto verso me stesso che nun apprezzo quello che oggi ancora ho …

mercoledì 12 agosto 2015

ROMA - MONACO DI BAVIERA - PRAGA - BERLINO - ROMA . Capitolo 4


(cronaca di un viaggio in treno avvenuto nell'anno di grazia 2006 - vedi post precedente del 29 giugno 2015)


11 agosto Praga

G. continua a vivere il suo rapporto terremotato con F., in una giostra infernale di saliscendi pirotecnici, incollato al telefono, oramai un prolungamento del suo orecchio che ha acquisito capacità bioniche e forse qualche virus. Maniaci pervertiti di sms  densi, vivi, palpitanti, e conversazioni logorroiche che si esautorano per sfinimento delle corde vocali.
Ma sono lì, distanti eppur vicini l’uno con l’altra, che attraversano lo spazio su onde di tecnologia vibranti di qualcosa che ancora hanno paura di chiamare con il proprio giusto nome. Ogni cosa che attira la sua attenzione è rivolto di rimando a lei, occupata nella città che è troppo vecchia ma non lo dà a vedere, sempre e comunque presente nei suoi neuroni attivi.
E litigano. E si amano. E sorridono. E s’incazzano. E poi ancora. E poi Klimt, Picasso,  Van Gogh, Guttuso, Monet, Rodin, Degas. Mms che corrono sul pianeta terra infrangendosi come onde nelle asperità del cuore di lei, consapevole e vinta di un destino che non può cambiare. Perché poi. Cosa ci resta se non l’amore? Posseduti da quello che la nostra vita ci porge su un piatto d’argento dimentichiamo spesso quello che più conforta e rassicura il nostro cuore, rotto, si, ad ogni esperienza, ma non in frantumi e desideroso di maggior calore. Cosa ci resta se non l’amore. Facce che hanno indossato rughe, ma sempre vestite all’ultima moda; scorci di tramonti in solitudine, i nostri libri, i nostri viaggi, i drink all’aperitivo, case in affitto, motociclette, sogni, notti che sono ormai repliche di repliche stantie e pochi amici seppur veri … cosa ci resta se non l’amore. Perché non chiamarlo con il suo nome quando bussa in questa casa di vento?
E Praga sonnecchia nella mattina.
E G. telefona.
Ed io sono felice.
Prendiamo sempre più coscienza.         
Il tassista all’andata ci ha rubato dei soldi.
Non ce ne frega un cazzo.
Arte moderna ci ha comunque ripagato.
Cosa ci resta se non l’amore? 

11 agosto sera  Praga

Il filetto di Giovanni, delizioso ristorante nascosto in uno dei tanti vicoli, si scioglie nelle nostre bocche affamate mentre due ragazze sedute al nostro fianco, praticamente sulla strada, ci guardano incuriosite e si scambiano sorrisi ed occhiate. Una azzarda un "buon appetito" molto teutonico, ma ingentilito dal sua sguardo divertito e interessato. Noi contraccambiamo l’augurio, anche se loro hanno praticamente terminato. Poco dopo si alzano, mentre noi mangiamo beviamo e ridiamo contemporaneamente, scomposti su sedie sempre in bilico.
"Buon appetito", ripete la  ragazza riccia ed esile, mentre l’altra, bionda e minuta, resta in disparte, forse in un rigurgito di timidezza. Noi restiamo lì, sospesi fra il dire e non dire. Si voltano. Girano l’angolo. E scompaiano fra i flutti di gente che si riversano nel centro.

- Le incontreremo di nuovo più tardi,  filosofeggia G. in uno sfrenato eccesso di ottimismo.

- Certo che si dico io, accordandomi sulla sua stessa lunghezza d’onda, dovuta probabilmente al pessimo vino rosso che stiamo bevendo.

Paghiamo e lasciamo un discreta mancia alla ragazza che ci ha servito e che io ho più volte chiesto in sposa senza alcun risultato.
Camminiamo satolli fra scarpe di tutti i colori e forme, bizzarre e impossibili, stracci ed abiti da sera, gente che esce da teatro e buttadentro di spogliarelli, famigliole con pupi biondi e zinne stratosferiche, code di cavallo su tacchi a spillo e fila ai cessi a pagamento, spettatori dell’orologio astronomico che non funziona secondo noi e polizia a guardia che tutto fili via liscio.
Dietro compenso, s’intende.
Vediamo anche un inglese con due polpacci da giocatore di rugby vestito da infermiera con tanto ti tacchi.
Beviamo tre birre.
E contenti di tutto questo ce ne andiamo a dormire.
Notte.

12 agosto Praga

Ormai mutilati degli arti inferiori chiudiamo l’ultimo giro sulla città con il peggior tempo delle nostre crono. È sabato notte. Su Praga esplodono contemporaneamente mille patte nell’orgia collettiva con minorenni minorate e inconsapevoli. L’orologio per una volta funziona. Un’ ultimo sguardo. Un’ultima birra. Poi ci vendono catrame per hascisc. Ma non ci importa. Quello che stiamo cercando sembra bussare delicatamente alle nostre porte ancora chiuse. Ma più disponibili a farsi violare, a provare.
La notte inoltrata mi coglie alla finestra. G. cerca di dormire. Il silenzio ci avvolge. Parte di noi resta in questo posto. Parte di noi ci saluta alla porta. Senza valige. Senza scarpe. Senza soldi. Ma piena di certezze e libera da vincoli, quasi mai gratuiti.
Buona notte
O quello che resta. 

13 agosto Praga – Berlino

Domenica mattina. Ore otto e mezza, all’incirca. Carichi come somari e con gli stessi ragli d’insofferenza attraversiamo una silente solitudine ammantata di una debole luce.
Arriviamo alla stazione trafelati. Cerchiamo e troviamo il binario che ci riporterà in Germania. Sull’isola che divide le strade ferrate incontriamo due giovani ragazze italiane. Cercano lo stesso treno. Hanno la nostra medesima destinazione. Ci accomodiamo in uno spazio per quattro, nonostante la nostra prenotazione ce ne riservi altri due e loro non ce l’abbiano affatto. Trascorriamo due ore piacevoli in discorsi ameni, e sorrisi defatiganti.
Poi arrivano i legittimi proprietari dei posti. Ma in un battibaleno ci riorganizziamo di nuovo, anche se sparpagliati. Il posto di fianco al mio is free, dico ad un attempata donna tedesca in cui trasuda ancora una recente bellezza nei lineamenti marcati e nella figura esile. Cerca di alzare nel porta bagagli il suo trolley. L’aiuto. Ma mentre lo faccio la mia pesante borsa che contiene libri, soldi, macchinetta fotografica e vari oggetti di ricarica cade sulla testa di un vecchio tedesco con baffi e cappellino. E gli fa male. Questo si alza ed inizia ad urlare in tedesco fra l’indifferenza degli altri viaggiatori, anche dei suoi compagni di viaggio. Poi getta la mia borsa lontano.
Io prima avevo cercato di scusarmi.
Dopo, in un moto di rabbia sotto safety control, mi alzo gli occhiali neri che mi coprono il viso e gli dico in un sussurro“educato se non altro”.
 Il tipo si siede di nuovo come se nulla fosse successo.
La donna che stavo cercando di aiutare alza gli occhi al cielo in segno di “cosa ci vuoi fare? È così che vanno le cose …”;.
G., S. e V. ridono a crepapelle. Io mi siedo. Vorrei riprendere la borsa per leggere qualcosa, ma desisto. Se gli cade di nuovo in testa succede un casino.
Mi accomodo e mi perdo in un viaggio nel viaggio. I miei compagni credo facciano lo stesso.
Sfilano campagne dalla grande finestra pulita del vagone. Come tutte le altre. Quella nel treno da Roma a Monaco era putrida.
Effeesse: cambiano gli amministratori delegati e i bussinnes plans, ma i treni sono sempre gli stessi, e la pulizia uguale.
A Berlino piove a dirotto.
Alla stazione centrale non passa neanche una linea metro.
Prendiamo un taxi.
A destino il tassista scaricando le valigie ci saluta con “ you welcome”.
Questo posto già ci piace.
L’albergo è modesto.
Ma siamo in Alexanderplatz.

E tutto il resto viene confinato nella scatola dei ricordi.

lunedì 29 giugno 2015

ROMA - MONACO DI BAVIERA - PRAGA - BERLINO - ROMA . Capitolo 3

(cronaca di un viaggio in treno avvenuto nell'anno di grazia 2006 - vedi post  precedente del 15 giugno 2015)

9 agosto Monaco di Baviera - Praga

La sveglia che puoi regolare sul telefonino è puntata alle 5 e 45. Quando suona io non la sento. G. invece ha già fatto la doccia quando mi chiama. I sacchi sono pronti. Noi pressappoco. Li carichiamo sulle spalle e chiamiamo l’ascensore. Nella hall deserta il tedesco di servizio dai lineamenti orientali ritira la chiave e poi sbiascica qualcosa in un terrificante slang anglo tedesco. Io non lo degno di uno sguardo. G. abbozza una risposta. Quello sparisce sotto il bancone e riemerge in un nanosecondo con in mano un telecomando.

- Forse vuole dietro quello che ci hanno dato quando siamo arrivati,  blatera G. leggermente indispettito.
  
È cosi.
"Ma brutto stronzo figlio di troia nano bastardo, vattelo a prendere. Sei qui, in un deserto, non devi fare un cazzo, perché ci rompi i coglioni?", verrebbe da dire, ma l’educazione che ci hanno impartito i nostri genitori ci impone di tornare in camera e, una volta giù di nuovo, tirarglielo dietro.
E così sia.
L’aria è frizzante. Il giorno ha aderito quasi completamente sulla notte. Restano solo poche sacche buie. La stazione ha pochi frequentatori. Ma tutti belli svegli. Come automi compriamo la colazionepranzo da portarci sul treno. Ed acqua.
I vagoni rossi del treno per Praga sembrano deserti. Entriamo, sistemiamo gli zaini, poi scendiamo a fumarci una canna. Mancano cinque minuti alla partenza. A G. viene un dubbio. Esce nuovamente e mi dice che sulla carrozza non c’è scritto Praga ma un’altra località.

- Nooo, non ti preoccupare sarà una stazione di mezzo, dico mentre cerco una posizione per dormire.

G. scende di nuovo. Venti secondo dopo mi urla nell’orecchio che i vagoni per Praga sono quelli azzurri in testa al convoglio. In uno spasmo violento raccogliamo tutto quello che abbiamo e iniziamo a correre in avanti. Alla prima scritta Praga saliamo, e si chiudono le porte.  I nostri cuori sfiatano per l’accelerazione cardiaca. Avevamo mezz’ora di anticipo e stavamo per perderlo.
Compiaciuti delle nostre teste di cazzo cerchiamo e troviamo un posto. Ripetiamo l’operazione di ancoraggio dei bagagli. G. calza l’auricolare dell’emmepitre.
Io mi addormento. E così, tra buone letture, dormite e qualche sms con le amicheamici a Roma scorriamo sui binari sicuri delle ferrovie tedesche.
Finché Praga non segnala il suo "benvenuti".
La stazione è piena di tossici.
Il cammino fino all’albergo faticoso.
La stanza accogliente.
La doccia calda.
Ed il letto finalmente comodo.
Al pomeriggio, al risveglio, planiamo sulla città come aquile affamate. In cerca di prede. In cerca di qualcosa che ancora non conosciamo. Ma che di lì a poco tornerà alla luce da dove era stato sepolto. First stop for drink beer.
In un saliscendi da luna park l’antico vigore e splendore praghese ci si dipana davanti in tutta la sua maestosità, finché lo splendido imbrunire non crea nuove alterazioni visive, facendo esplodere, nel profondo dell’animo, sensazioni eteree di pace eterna.
Ponte Carlo s’illumina.
I turisti sciamano.
Noi prendiamo coscienza.
Un volo simbiotico perpetuo che forse ha trovato il suo nido.


10 agosto  Praga

Accarezzare un sogno. Lasciare che seta scivoli sul tuo viso lasciando dietro se una miriade di celeri brividi, interminabili. In un oasi di piacere e pace. Ecco. Le strade  appaiono d’incanto dietro ogni vicolo e s’aprono e le percorriamo senza un contatto, leggeri e vuoti, ma calamitando ogni sospiro e sussurro che una leggera brezza ci consegna ad ogni incontro casuale, sotto un portico, sul colle del castello, sotto Ponte Carlo, a fissare lo scorrer del Moldova e delle nostre ore. Nel peregrinar divertito e senza meta. 
Nell’apprendere, comunicare, fotografare e commentare. E poi un violino. Un sax. Una fisarmonica. Arte di strada venduta in strada. E una coppia di cinesi che si abbracciano nello scoppio di un flash che sarà un prezioso ricordo. E lei che è bella. L’altra di più.
 E W.A.Mozart. Il dongiovanni. Marionette che ballano guidate da mani sapienti. E flash ininterrotti. E turisti. E noi. Casinò “24H open”, e sesso offerto agli angoli:" fick fick, pompino (a seguire hascisc e marjuana)", continua a ripetere un nero che sbuca dall’ombra come un assassino sulla sua preda, in mostra sui volantini in strada.
E questuanti proni, immobili come mimi, mentre l’Europa che conta cena sotto orribili ombrelloni ma necessari dagli scoppi improvvisi di piogge cantilenanti che cadono sulla città di tanto in tanto.
Alle 11 di sera, poi, cala il sipario. E ciò che prima era solo sussurrato timidamente diventa un’eco che si rincorre in ogni angolo e vicolo. Quelli soddisfatti del giorno tornano nelle silenziose e spoglie camere d’albergo. Mentre sulla scena irrompono i cavalieri iscritti al “sex machine museum”.
Con le loro spade affilate pronte a penetrare giovani carni, salutandole all’incontro con “ hey, guys”, e facendole scivolare sul viso la più falsa delle carezze. Cavalieri che hanno da spendere il loro bottino di guerra sudato nelle 360 battaglie dell’anno, sostenute nei loro paesi d’origine.
I pubs e ristoranti iniziano le operazioni di chiusura. Non ti servono più. Gli unici posti nella città per gli ospiti dove è possibile bere sono quelli in mano alla mafia locale, discoteche e sale da gioco, peep show e kabaret, tutti ritrovi dove il mercimonio del sesso ha una sua giustificazione.
E i cavalieri barbari si ammassano alle entrate, file di uomini con l’uccello che smania, che ha voglie, che può pagare. Per uno scalpo di cui potranno raccontare agli amici, trofeo di una guerra che non si combatte con armi, e da cui è facile uscire vincitori.
E noi lì, a guardare increduli la caduta di quello che resta della belle epoque, della Praga bohemien, dell’aristocratico motore culturale della mittle europa di un tempo non troppo lontano.
Voltiamo le spalle.
Ce ne torniamo alla room 307 dell’Abri hotel.
Strada facendo compriamo una birra da un ambulante.
Domani Praga tornerà ai sui fasti.
Fino alle 11 di sera.
E forse, anche un po’ meno.
Non piove.
E questo è molto.
Buonanotte.

Bordel pour bordel
 Moi, je préfère le métro
 D’abord c’est moins cher
 Et puis c’est plus chaud

                                   (Aragon

lunedì 15 giugno 2015

ROMA - MONACO DI BAVIERA - PRAGA - BERLINO - ROMA . Capitolo 2

(Cronaca di un viaggio in treno avvenuto nell'anno di grazia 2006 - vedi post precedente del 10 giugno 2015)

6 agosto Monaco di Baviera

È possibile restare calmi e indifferenti mentre il modo intorno a te precipita? È questa la sensazione che proviamo mentre io e G., dopo doccia e canna mattutina, cerchiamo disperatamente le chiavi della stanza. E cerchiamo. E cerchiamo. E cerchiamo. Alla fine, dopo circa mezz’ora di inutili ricerche, G. è finito addirittura a  togliere i pannelli in cartone del contro soffitto della camera mentre io sostenevo che se trovava la chiave la sopra avrei preso il primo treno per Lourdes, apriamo rassegnati la porta e, come in tutte le storie a lieto fine, la chiave è sulla porta.
Bella e fredda è lì che aspetta. Che due coglioni la recuperino. Che due coglioni la riportino nel posto giusto.
E così il nostro primo giorno in Monaco ha inizio. Sperando che abbia anche una fine.
Piove a dirotto. C’è gente ferma all’uscita dell’albergo dove siamo alloggiati. Senza ombrello. Come noi. Chi di noi due ha mai posseduto un ombrello? Se pur piccolo e non ingombrante? Ma compenetrati nella nostra parte di turisti noalpitur decidiamo di avventurarci per le strade della città.
E cosi premiamo start e la nostra playstationnonvirtuale emette i primi vagiti accogliendoci nel gioco che abbiamo fortemente voluto e programmato. Molto sommariamente. Molto nonsense
Comunque.
Alla stazione G. prende un cappuccino, o qualcosa che avrebbe dovuto esserlo nelle intenzioni di chi lo ha preparato. Io sandwich con salame, e coca cola. Con risultati  migliori dei suoi. Poi comperiamo due “blue umbrella”.
Alla fine ne resterà uno solo. L’altro risulterà smarrito e piangente su qualche panchina che ha accolto i nostri sederi affaticati dal troppo camminare. E guardare. E commentare. Dalle troppe tappe a cercare strade sulla cartina. E posti. Mentre nordiche bellezze attraversano i nostri desideri lasciandosi dietro una morbida scia di eccitazione. E strani tipi.
Durante il peregrinare ne abbiamo incontrato e fotografato addirittura uno in pigiama. Turisti per lo più. Che avranno avuto le nostre medesime impressioni guardando noi. Anche se non siamo in pigiama.
E ci ritroviamo con il naso all’insù ad aspettare che l’orologio in Marienplatz inizi lo show delle dodici, che rappresenta interrottamente dal 1700 circa. Così, almeno, riporta la guida per “un weekend” che abbiamo tolto da un ripiano in una delle rigogliose librerie in stazione termini.
Vestiti come loro. Con macchina fotografica e videocamera digitale, come loro. Mp3 e telefoni cellulari, come loro. E carte di credito, solo meno disponibili delle loro. E collegamento alla rete possibile in ogni momento grazie al portatile al seguito. Come per ognuno che lo vuole in  uno dei tanti internetcafé della città. Turisti tecnologici, se non altro.

- Saremo in grado di saper utilizzare tutto ciò? domando a G. mentre una deliziosa birra bagna labbra assetate. 
- Certo che si! 
- Certo che no ! provoco io. 
- Vedrai, vedrai come l’interconnessione globale ci sposterà da un punto all’altro dell’Europa unita
- Per fortuna, concludo.

Ridendo ordiniamo un’altra birra. Io vedo un cane verde. La pioggia adesso non cade più. Marienplatz rigurgita di gente. Le nostre teste di vuoto.

Al ritorno ripercorriamo le tappe di oggi. Rapiti soprattutto dagli splendidi paradisi disegnati da un artista di cui non ricordo il nome, ma cosa importa, dai quali ci siamo lasciati catturare e trasportare in un volo libero,  in una calda ed accogliente oasi di brasiliani sapori. E dalla favelas in mattoncini e legoblock  riprodotta in una sala del museo individuato nel nostro giro mattutino da Morrigno, un giovane artista brasiliano. Un florilegio di colori accesi e vibranti, un enorme deposito d’armi, macchine di lusso e fango, e strade barricate sulle quali domina il cristo re. Con le braccia aperte che guarda sotto. Forse pensa che sia sufficiente. A che la vita che ti è stata donata in quel posto misero non ti sia tolta prima di essere maggiorenne, non ti sia privata da sbarre, non ti costringa a prostituirti, a vendere droga, a cercare avanzi nella spazzatura.
Un filo sottile lega l’avvocato conosciuto in treno all’opera di Morrigno. Un sottile, ma resistente filo. Un messaggio, forse, che ancora non abbiamo compreso, ma che sicuramente porteremo alla luce seguendo le altre indicazioni che, inevitabilmente, si porranno davanti a noi fervidi credenti del sopranaturale, di fatti apparentemente distanti fra loro, ma con lo stesso minimo comune denominatore.
A noi trovarlo.
Giunti in camera G. sviene non appena riesce a stabilire un contatto con il cuscino. Lo rianimo dopo due ore quando esco dalla doccia. Che aiuta anche lui allo sbrinamento del cervello obnubilato dalle troppe canne. E dalle troppe birre.
La notte ci accoglie piovendo. Ma tenera e fresca. Invogliante. Raggiungiamo in fretta un ristorante argentino. Ricarichiamo le nostre cellule. Gustiamo un pessimo vino rosso spagnolo. Due rum a testa. E fumando, finalmente, una sigaretta, ci disperdiamo fra le rade persone che popolano l’umida serata bavarese.
Soddisfatti e satolli di questa giornata così lontana dalle nostre abitudini; semplice e densa di quei piccoli avvenimenti che nel nostro caos quotidiano nella città eterna passano inosservati o derisi.
Buona notte.

  
7 agosto Monaco di Baviera.

La chiave è al suo posto questa mattina. La testa apparentemente. Dopo lo stato di catalessi passato stanotte, una riga vuota la percorre da destra verso sinistra. Usciamo dopo aver controllato di aver preso tutto. Tutto quello che riteniamo ci possa servire. O solo aver dietro per sicurezza. E lentamente ci avviamo alla colazione. G. ritenta la sorte con un cappuccino. Anche io replico quello di ieri, con identici risultati per entrambi.
E poi via, nell’ecumenica atmosfera che ristagna su Monaco di Baviera. Una città buddista. In cui il tempo non ti aggredisce. Ma partecipa con te all’evolversi dei minuti. Delle ore. Della mattina pomeriggio e sera. E ti culla in un silenzio irreale per chi vive alle nostre latitudini. Un silenzio che da energia. Che ti carica. In una ninnananna dei miei primi giorni di vita.
Nello girovagare spensierato per la città ci ritroviamo schiavi senza saperlo della tecnologia che, pesantemente, trasciniamo chi attaccata al collo chi chiusa in borsa. Le cose si rincorrono rapidamente, ma slacciate dalla frenesia usuale che abita le nostre menti. Colori e forme geometriche, culi e tette, oli su tela e leoni in strada, mcdonald e two beer please, canne rollate in un parco innaffiato perennemente da qualcuno lassù, e biciclette da noleggiare che non troviamo chi le noleggia ma metà dei turisti sono in giro con quelle.
Una buona birra, anzi due, chiude la mattina mentre acqua senza soluzione di continuità cade sulle vie della capitale delle Baviera.
Ci alziamo.
Facciamo due metri.
G. vede due fantasmi. Io li fotografo.
Facciamo altri due metri.
Ci fermiamo sotto un portico che costeggia la strada.
Premiamo rewiu e guardiamo la foto. E poi di nuovo.
G. prima sgrana gli occhi. Poi ride.
Io rido solo.
E riprendiamo la marcia.
Pensiero di G.: “averli visti, beh succede, ma fotografarli ...”
Pensiero mio: “averli visti, beh succede, ma fotografarli ...”
Ma nessuna parola vibra dalle nostre corde vocali intrise di luppolo.
Nella pausa pomeridiana G. si sente un leone, mi dice mentre lavo la lunga camminata sotto la doccia. Esco dal bagno e dorme. Io m’incarto con Flaiano. E due ore serfano leggiadre fra le nostre stanche membra. Intorpidite. Esauste.
Il risveglio di G. è da leone. Doccia di sbrinatura ed giù, all’internetcaffé, visto che abbiamo dietro il portatile per collegarsi alla rete e prenotare alberghi. Ventisette minuti per capire (visto che noi, detto ieri, con la tecnologia saremmo arrivati ovunque) come funziona.
Poi l’arcano viene svelato. Chiediamo al tipo addetto a questa cosa. Spariamo verso Praga 89 email in un crescendo di eccitazione e tensione, sicuri del fatto nostro e con la testa a vagliare ogni possibile alternativa. Un’ora sudaticcia e incredibilmente lunga. Nell’attesa di una risposta. Di una speranza. Quando la navigazione si esaurisce per mancanza di credito recitiamo la parte delle persone di buon senso dicendoci che, sicuramente, ci risponderanno all’indomani. Bravi !
"Se non ci scollegavano ci facevano soci", è l’ultima frase che percepisco nell’esaurirsi delle mie pile biologiche.
Anche se vorrei ridere per quanto è vero.
Su Monaco piove.
Su di noi no.
Buonanotte.


8 agosto monaco di baviera

Rewiu è di nuovo in azione. I due fantasmi, alla luce del giorno e con gli occhi di una mente sveglia se non proprio reattiva e scattante, sono due giapponesi incartate in un qualche tipo di impermeabile.
Giro off sulla macchinetta fotografica. G. sul tasto della luce. E tutto riappare come per magia nel velo di un’esile pioggia. Strade assonnate ma vibranti di vita pur se povere di calore.
Gli uomini sembrano distanti fra loro mentre si sfiorano nella meravigliosa isola pedonale che racchiude il centro città. Condomini di un’enorme palazzo. Ma schivi e ben attenti a non contaminarsi. Lindi e sorridenti. Nel giusto peso. Con il giusto conto corrente. Macchina. E fica al fianco. Bionda. Algida. Costante. Quasi sempre seriosa. Valchirie che cavalcano l’onda del benessere e del fitness. Estatiche manipolazioni genetiche. Prive d’abbronzatura. Pallide lune in un cielo scostante, perennemente imbronciato, ma pronto ad illuminarle la scena, quando ne ha voglia, calando sul palco un tenero sole. E a noi non resta che beatificarle nel nostro personale organigramma del paradiso che continuamente aggiorniamo.
Pinakoteken der modern assorbe completamente la mattina, facendo germogliare nel nostro spirito fiori di benessere di rara bellezza. E Purezza. Nelle inarrivabili espressioni di visionari fuori tempo, luogo, dimensione.
Un ottimo caffè ci riporta sulla terra. Sono le due del pomeriggio. La città è nostra, seppur in condivisione. Ce ne fottiamo, e trascinando i piedi su marciapiedi senza una fine battiamo strade che ancora non conosciamo.
Alle tre break per una birra.
Così alle quattro.
Alle cinque.
E alle sei.
Finché l’internetcaffé non ci appare davanti a ricordarci che abbiamo ancora una prenotazione da fare. E biglietti da comprare.
Ci sono solo due risposte alle 89 email inviate.

- Beh, un po’ poche,  faccio io. 
- Beh un po’ troppe poche, ribadisce G..

Curiosi ed in attesa, come frequentatori di tavoli verdi al casinò, aspettiamo che la pallina finisca il suo giro per vedere se il colore che esce è quello puntato. Nero. Noi rosso. Altro giro. Altra attesa. Nervosa adesso, incalzante, dubbiosa e quasi rassegnata.
Nero. Bingo!
E come due cretini che hanno appena vinto la riffa sotto casa ci abbracciamo. Come dopo un gol. Nella nostra personale rivincita contro chi poi. Ma siamo felici e vogliamo farlo vedere. E ci stiamo riuscendo, visto che, finite le feste, ci restano attaccati addosso sguardi ebeti di eternauti avvizziti.

- Stampa il booking
- Come? 
- Print! No? 
- Imbecille, print che? Dov’è la stampante? 
- Bravo! print che!

Mi volto e mi dirigo verso la tipa del bancone del caffè+internet in cerca di spiegazioni, chiedendogli, letteralmente, come posso to stamp (francobollo) the booking ...
Quella mi guarda inorridita e mi chiede "what?"
Io ripeto la frase ben tre volte. Quella capisce con chi a da fare e mi chiede dove è posizionata la mia stazione.  Poi mi dice che da lì non posso stampare. Devo cambiare postazione. È bello, e mi diverto perché ci sono giorni che non capisco alcunché di quello che mi dicono ma mi esprimo in un ottimo inglese, altri invece capisco chiaramente quello che mi riversano addosso ma non riesco a mettere in piedi alcuna frase di senso compiuto o almeno ben strutturata.
G. è li che ci guarda.
Cambiamo posto. Infilo una moneta da un euro nell’apposita fessura che ci dovrebbe garantire almeno venti minuti di navigazione quando le urla di una tedescona precocemente invecchiata mi spostano di lato. Inveisce mugolando nella sua, per noi, incomprensibile lingua. Dopo circa cinque minuti, più o meno, intuiamo che quella postazione è inservibile.
Chiedo dietro l’euro.
Penso mi mandi a quel paese. Ma non ho la forza di reagire. Tanto meno G.
Domani dobbiamo andare. E non abbiamo di che dormire. 
In nostro soccorso arriva la ragazza del bar/caffè/internet/etuttoquellochec’èlidentro, e ci porge un foglio che fornisce informazioni.
E ci voleva tanto …
Riemersi stralunati da quella orgia di incomprensioni seguiamo alla lettera le istruzioni.

- Su stampiamo!, fa G.

No, nel frattempo una nuova email di ritorno dall’albergo con il quale avevamo gridato bingo ci avverte che devono spostarci in un altro posto.
Decidiamo di telefonare.
Volturano la chiamata nell’albergo che ci dovrebbe ospitare. Per uno strano scherzo del destino la conversazione fra me e chi mi risponde dall’altra parte del telefono fila via liscia e senza intoppi. Chiara.
Sarà di necessità virtù?
Non me ne frega un cazzo.
Abbiamo il booking.
G. fornisce i dati richiesti ed il numero della carta di credito. In due minuti abbiamo il nostro accredito. Inviamo la stampa. La ritiriamo dove indicato. Paghiamo 70 centesimi. E veloci come puma sprofondiamo sui morbidi sgabelli di quello che abbiamo eletto posto migliore di Monaco per bere birra.
Pizza per cena in compagnia di quattro jap. Brutte. Una meno. Io me la vorrei fare. G. pure.
Mi dispiace ma io so io e voi non siete un cazzo”,  riecheggia dal cellulare di G. avvertendolo di un messaggio in arrivo. Io continuo a guardare le jap.
Loro vanno.
Anche noi.
Su Monaco piove.
Domani alziamo i tacchi e ce ne andiamo a Praga.
Prima di dormire fantastichiamo un’ammucchiata con le quattro jap. Orientali occidentalizzate. Fiche trasversali. Bocche sapienti. Gheishe.
Adesso viene giù un temporale.
Buonanotte.


venerdì 12 giugno 2015

DIECIMILA SUICIDI IN GRECIA


E si, il numero è proprio quello, forse per difetto. Dal 2011, anno in cui ufficialmente è iniziata la crisi economica che attanaglia la maggior parte degli stati facenti parte dell'Unione Europea in Grecia, fonte Corriere della Sera (link della video intervista alla fine del post), 10.000 persone si sono tolte la vita.
Mi riesce particolarmente difficile commentare una simile notizia, sopra tutto per come è venuta fuori ed è stata accolta, ovvero nell'indifferenza generale.
Un padre il cui figlio è incluso in questo numero tragico snocciola questa cifra quasi in assenza di emozione, come se fosse in una sorta di trance ipnotica; io guardo e riguardo il video e resto senza parole. 
Non una articolo di giornale, un servizio sui tg nazionali, né, tanto meno, una qualunque forma di comunicazione ufficiale seppur, magari, in una fredda nota statistica.
A questo siamo, l'Unione nasconde le sue cifre impietose come un qualunque regime dittatoriale sparso sul pianeta, con la differenza che l'Europa non è un Paese africano o asiatico cui ai grandi stati fa comodo il dittatore di turno.
O forse è proprio così?
Gli stati vassalli della Germania oramai tacciono impauriti su quello che sta succedendo nella vecchia, cara e gloriosa Europa, come un qualsiasi affiliato ad una qualunque mafia mondiale che gode di riflesso del potere del boss ma tace di tutto quello che vede?
"Mi vergogno di essere europeo": con questa frase si chiude l'intervista al padre greco che stiamo cercando, non senza sforzo, di commentare.
Mi vergogno anche io di essere europeo, se esserlo significa guardare solo ed esclusivamente al proprio interesse, alla salvaguardia del possesso, al mantenimento dello status quo conquistato ed esibito, a discutere solo ed esclusivamente di freddi numeri su fredde slides in freddi convegni che s'interrogano sul futuro economico dell'Unione.
Nella vecchia,cara e gloriosa Europa ci sono voluti secoli per conquistare diritti per l'uomo comune, dagli albori dello Stato sociale per cui è stata combattuta la Rivoluzione Francese, passando per la Rivoluzione industriale inglese ed il Capitale di Marx, alle grandi battaglie sociali per i diritti nei primi anni del 900 e così via.
Ora assistiamo inermi ad un lento ma inesorabile depauperamento di queste conquiste, soggiogati dalla logica della multinazionali, delle banche e del "pareggio di bilancio"; inermi ed impauriti.
Diecimila suicidi  è un numero che dobbiamo tenere impresso a fuoco nel nostro immaginario, è un numero che occorrerà ampliare con i dati occulti degli altri stati dell'Unione, cercandolo sul campo, lontano dalle veline di regime imposte ai mezzi di comunicazione ufficiali.
Il depauperamento dello Stato Sociale a cui stiamo assistendo ha colpito anche noi, oltre la Grecia, la Spagna, la Francia ed il Portogallo.
L'Unione conta ad oggi 28.000.000 disoccupati, e prospettive non proprio allettanti per i nostri ragazzi.
Non lasciamo che secoli di lotte vengano spazzate via condizionate dalla "crescita zero" che ogni giorno viene sventolata sotto i nostri occhi sempre più tristi e, oramai, ciecamente circospetti ...
DIECIMILA SUICIDI ...




http://video.corriere.it/grecia-il-conto-disperazione-diecimila-suicidi-5-anni-l-ultimo-quello-mio-figlio/604464a8-0f8f-11e5-aa3a-b3683df52e95?fb_ref=Default

mercoledì 10 giugno 2015

ROMA - MONACO DI BAVIERA - PRAGA - BERLINO - ROMA . Capitolo 1

(cronaca di una viaggio in treno avvenuto nell'anno di grazia 2006 )

4 agosto - Roma

L’augurio telefonico delle sei e mezza circa di un pomeriggio intriso di sole ed aspettative è di buon riposo. Buona dormita. E così sia. G. chiude la conversazione e davanti mi passa veloce il suo viso in un ghigno beffardo e per nulla disposto ad assecondarsi … né tanto meno a farlo per me …


5 agosto Roma - Monaco di Baviera

L’havana sette imperversa lungo i corridoi del mio stomaco mentre cerco di scrivere un sms a G.: “sto a rientrà!!!! Boh”.
Sono circa le quattro e mezza del mattina e dall’augurio sono trascorse dieci ore circa ... Quando apro la porta di casa il mio mondo si capovolge riversando liquido in eccesso nel mio stomaco nella tazza del cesso. E poi coma profondo, morte apparente.
Due ore dopo il cuckoo che ho memorizzato come suoneria sul cellulare inizia la sua cantilena tirandomi fuori dal girone dei non morti.
Sotto casa G. e D. Sono confuso. Loro più di me. D. era con me. G- riceveva il mio messaggio di rientro mentre tentava di aprire la porta di casa. Con scarsi successi. Fa caldo. Lo zaino pesa. Nella macchina dal condizionatore non sembra uscire aria ma rum. Tento di non respirare ma mi sembra una follia. Scendiamo davanti ad un bancomat per prendere soldi credo, ma non posso giurare che sia andata effettivamente così. Piombo in un nuovo coma finché un fastidio nell’orecchio non mi avverte che “bisogna scendere” ; "e perché ?" mi verrebbe da rispondere … ma lo sguardo dei due davanti a me mi comunica che dobbiamo anche farlo, e pure in fretta ...

- Si potrebbe una volta, una cazzo di volta, per la precisione dico, affrontare un impegno così complesso ed articolato come una partenza per la vacanza, in  modo più consono e  meno trafelato?

- Certo che si potrebbe ... alza la voce G., piuttosto, diciamo così, contrariato dal precipitare degli eventi ...

- Se una volta in vita tua comprassi una sveglia che funziona ... mezz’ora di ritardoe devo dire che stai migliorando … 
- A che ora è il ... 
- Ora! 
- Che cazzo! …
 - Che cazzo lo dico io ... 
- E già, è un’esclusiva … 
- No ... no ... proprio che cazzo, su sbrigati ...

Alla fine della corsa ci aspetta uno scompartimento che già accoglie quattro persone. Ci hanno lasciato i posti nel mezzo. Gli zaini sono ingombranti. Anche l’alito, che permea subito la ridotta aria a disposizione di un sottile velo di putrefazione.
E finalmente le scomode poltrone (?) accolgono i bermuda a righe di G. e la mia tuta adidas nera con righe bianche ai lati.  
Io cado in un nuova coma. Però più scomodo. E meno pesante.
G. non so che faccia.
Mi sveglio dopo circa tre ore.
G. mi saluta. E cade in coma.
Adesso è lui che non sa che cosa faccio io.
Dopo circa un ora riemerge.
Io intanto ho intavolato una conversazione seria e costruttiva con una donna, che non capisco che accento abbia, seduta alla sinistra di G. Il treno sembra non avere suoni. Sembra che viaggi in una sorta di playback silenzioso. Camuffato dalle nostre parole passatempo in un luogo di ritrovo. La fame bussa alle porte dello stomaco. Il percorso ad ostacoli verso la carrozza ristorante per fortuna è breve. I panini di gomma. La pepsi calda. Venti euro transitano dalle nostre tasche nei bilanci dell’azienda trenitalia rossi di vergogna. L’unico contento sembra il cameriere. Anche senza un motivo apparente a noi sembra; però continua a fare battute alle quali nessuno ride. Uno perché, oltre a noi, il resto dei conviviali è straniero, e secondo perché a me G. proprio non fanno ridere.
Nel percorso ad ostacoli del ritorno un’anziana ed antipatica signora ci chiede di aiutarla a trasportare le sue valigie. Controvoglia accettiamo. Non per maleducazione, pigrizia, forse. Comunque. G. prende in consegna un pacco di cartone tutto incerottato. Io una valigia che poteva contenere l’anziana signora stessa.  I muscoli mi si tendono fino quasi a strapparsi. La smorfia di dolore di G. penso che appaia sul suo viso  per la stessa cosa. Percorriamo due vagoni fra gente accampata su trenitalia.com trainando, fra bestemmie, quei pesi fuori portata per gente normale che onestamente spende i suoi soldi in ricche bevute e in tutte le altre cose che comprandole commetti un reato, e che dorme poco.
Ma tant’é.
Quando la vecchia finalmente trova un posto io sono stremato. G. sta per dargli una capocciata. Non per maleducazione, pigrizia, forse. Lei si volta e dice qualcosa. Il pacco e la borsa finiscono nell’apposito spazio bagagli sopra le poltrone (?) dello scompartimento in un baleno anche se con un probabile stiramento dei bicipiti.
Grazie.
Ma vaffanculo!
E poi, come cazzo ha fatto a portare valigia e pacco fin lì? Misteri della fede ...
Ad ogni buona azione corrisponde una reazione.
E comunque. Riprendiamo posizione nei posti riservati che le effe esse ci hanno garantito con l’acquisto del biglietto per Monaco di Baviera e ci rimettiamo a parlare con la signora alla sinistra di G.
Alla sua destra una coppia in età piuttosto avanzata che brontolano da quando siamo partiti. Rompicoglioni essenziali in un viaggio. Se non altro per avere qualcuno di cui sparlare.
Riesco finalmente a comprendere che la signora con la quale interloquiamo è brasiliana, di Belo Horizonte, o almeno così mi sembra. È in viaggio con il figlio sedicenne per raggiungere la sorella che vive a Monaco. Lei a Roma. È avvocato. E ci racconta un sacco di fatti, perlopiù legati al sottobosco romano dell’immigrazione, storie di droga e prostituzione. Insomma quello con cui abbiamo più affinità. Non crediamo alle nostre orecchie mentre la conversazione si srotola piacevole fra un arresto e storie di trans, che lavorano per far mangiare fratelli, sorelle e mamme nelle lontane favelas in cui erano derisi e violentati fin da bambini.
La coppia statica e borbottante nel frattempo, per loro fortuna, è scesa a Bolzano. Dimenticando gli occhiali da vista di lui. O di lei. Boh. Si scambiavano posto di continuo. Ci dispiace. Anzi no. Non ce ne frega un cazzo. Anzi.
E dopo quel piccolo momento di soddisfazione riprendiamo i nostri discorsi profondi traslocando sul tema degli ultrà.
G., che era stato subito riconosciuto da vecchie foto segnaletiche divulgate dalla digos di Roma,  come ammetterà l’Avvocato successivamente  in un delirio di onestà, snocciola la lunga sequenza di comportamenti estemporanei venutisi a creare sin dalla pubertà per quei cazzo di colori giallo e rosso per i quali ha attraversato l'Italia in lungo e largo, isole comprese.
 Io ogni tanto mi addormento, G. ogni tanto calza le cuffie dell’emmepitre che abbiamo acquistato prima di partire, entrambi in segno di resa, mentre l’avvocato tenta di entrare prepotentemente nel guinnes dei primati parlando per dieci ore consecutive.
E finalmente, dopo un’incomprensibile partita a carte con il figlio di lei a piripicchio, si mi sembra di ricordare sia questo il nome di quel gioco improbabile, Monaco segnala la sua presenza con un cartello bianco e blu al lato destro del treno.
La brasiliana residente a Roma da sedici anni ha al seguito quattro valigie di cui  una alla vista sembra molto pesante.
Indovinate chi la scenderà?         
Saluti.
Ed un numero di telefono.

Mentre su Monaco scende una leggera pioggia che ci accompagnerà in questa prima notte bavarese.