(Cronaca di un viaggio in treno avvenuto nell'anno di grazia 2006 - vedi post precedente del 10 giugno 2015)
6 agosto Monaco di Baviera
È possibile restare calmi e
indifferenti mentre il modo intorno a te precipita? È questa la sensazione che
proviamo mentre io e G., dopo doccia e canna mattutina, cerchiamo
disperatamente le chiavi della stanza. E cerchiamo. E cerchiamo. E cerchiamo.
Alla fine, dopo circa mezz’ora di inutili ricerche, G. è finito addirittura a togliere i pannelli in cartone del contro soffitto
della camera mentre io sostenevo che se trovava la chiave la sopra avrei preso
il primo treno per Lourdes, apriamo rassegnati la porta e, come in tutte le
storie a lieto fine, la chiave è sulla porta.
Bella e fredda è lì che aspetta.
Che due coglioni la recuperino. Che due coglioni la riportino nel posto giusto.
E così il nostro primo giorno in Monaco
ha inizio. Sperando che abbia anche una fine.
Piove a dirotto. C’è gente ferma
all’uscita dell’albergo dove siamo alloggiati. Senza ombrello. Come noi. Chi di
noi due ha mai posseduto un ombrello? Se pur piccolo e non ingombrante? Ma
compenetrati nella nostra parte di turisti noalpitur
decidiamo di avventurarci per le strade della città.
E cosi premiamo start e la nostra
playstationnonvirtuale emette i primi
vagiti accogliendoci nel gioco che abbiamo fortemente voluto e programmato.
Molto sommariamente. Molto nonsense.
Comunque.
Alla stazione G. prende un
cappuccino, o qualcosa che avrebbe dovuto esserlo nelle intenzioni di chi lo ha
preparato. Io sandwich con salame, e coca cola. Con risultati migliori dei suoi. Poi comperiamo due “blue umbrella”.
Alla fine ne resterà uno solo.
L’altro risulterà smarrito e piangente su qualche panchina che ha accolto i
nostri sederi affaticati dal troppo camminare. E guardare. E commentare. Dalle
troppe tappe a cercare strade sulla cartina. E posti. Mentre nordiche bellezze
attraversano i nostri desideri lasciandosi dietro una morbida scia di eccitazione.
E strani tipi.
Durante il peregrinare ne abbiamo
incontrato e fotografato addirittura uno in pigiama. Turisti per lo più. Che
avranno avuto le nostre medesime impressioni guardando noi. Anche se non siamo
in pigiama.
E ci ritroviamo con il naso
all’insù ad aspettare che l’orologio in Marienplatz
inizi lo show delle dodici, che rappresenta interrottamente dal 1700 circa.
Così, almeno, riporta la guida per “un
weekend” che abbiamo tolto da un ripiano in una delle rigogliose librerie
in stazione termini.
Vestiti come loro. Con macchina
fotografica e videocamera digitale, come loro. Mp3 e telefoni cellulari, come
loro. E carte di credito, solo meno disponibili delle loro. E collegamento alla
rete possibile in ogni momento grazie al portatile al seguito. Come per ognuno
che lo vuole in uno dei tanti internetcafé della città. Turisti
tecnologici, se non altro.
- Saremo in grado di saper utilizzare tutto ciò? domando a G. mentre
una deliziosa birra bagna labbra assetate.
- Certo che si!
- Certo che no ! provoco io.
- Vedrai, vedrai come l’interconnessione globale ci sposterà da un punto
all’altro dell’Europa unita.
- Per fortuna, concludo.
Ridendo ordiniamo un’altra birra.
Io vedo un cane verde. La pioggia adesso non cade più. Marienplatz rigurgita di gente. Le nostre teste di vuoto.
Al ritorno ripercorriamo le tappe
di oggi. Rapiti soprattutto dagli splendidi paradisi disegnati da un artista di
cui non ricordo il nome, ma cosa importa, dai quali ci siamo lasciati catturare
e trasportare in un volo libero, in una
calda ed accogliente oasi di brasiliani sapori. E dalla favelas in mattoncini e
legoblock riprodotta in una sala del
museo individuato nel nostro giro mattutino da Morrigno, un giovane artista brasiliano. Un florilegio di colori
accesi e vibranti, un enorme deposito d’armi, macchine di lusso e fango, e
strade barricate sulle quali domina il cristo re. Con le braccia aperte che
guarda sotto. Forse pensa che sia sufficiente. A che la vita che ti è stata
donata in quel posto misero non ti sia tolta prima di essere maggiorenne, non
ti sia privata da sbarre, non ti costringa a prostituirti, a vendere droga, a
cercare avanzi nella spazzatura.
Un filo sottile lega l’avvocato
conosciuto in treno all’opera di Morrigno.
Un sottile, ma resistente filo. Un messaggio, forse, che ancora
non abbiamo compreso, ma che sicuramente porteremo alla luce seguendo le altre
indicazioni che, inevitabilmente, si porranno davanti a noi fervidi credenti
del sopranaturale, di fatti apparentemente distanti fra loro, ma con lo stesso
minimo comune denominatore.
A noi trovarlo.
Giunti in camera G. sviene non
appena riesce a stabilire un contatto con il cuscino. Lo rianimo dopo due ore quando
esco dalla doccia. Che aiuta anche lui allo sbrinamento del cervello obnubilato
dalle troppe canne. E dalle troppe birre.
La notte ci accoglie piovendo. Ma
tenera e fresca. Invogliante. Raggiungiamo in fretta un ristorante argentino.
Ricarichiamo le nostre cellule. Gustiamo un pessimo vino rosso spagnolo. Due
rum a testa. E fumando, finalmente, una sigaretta, ci disperdiamo fra le rade
persone che popolano l’umida serata bavarese.
Soddisfatti e satolli di questa
giornata così lontana dalle nostre abitudini; semplice e densa di quei piccoli
avvenimenti che nel nostro caos quotidiano nella città eterna passano
inosservati o derisi.
Buona notte.
7 agosto Monaco di Baviera.
La chiave è al suo posto questa
mattina. La testa apparentemente. Dopo lo stato di catalessi passato stanotte,
una riga vuota la percorre da destra verso sinistra. Usciamo dopo aver
controllato di aver preso tutto. Tutto quello che riteniamo ci possa servire. O
solo aver dietro per sicurezza. E lentamente ci avviamo alla colazione. G.
ritenta la sorte con un cappuccino. Anche io replico quello di ieri, con
identici risultati per entrambi.
E poi via, nell’ecumenica
atmosfera che ristagna su Monaco di Baviera. Una città buddista. In cui il
tempo non ti aggredisce. Ma partecipa con te all’evolversi dei minuti. Delle
ore. Della mattina pomeriggio e sera. E ti culla in un silenzio irreale per chi
vive alle nostre latitudini. Un silenzio che da energia. Che ti carica. In una ninnananna
dei miei primi giorni di vita.
Nello girovagare spensierato per la
città ci ritroviamo schiavi senza saperlo della tecnologia che, pesantemente,
trasciniamo chi attaccata al collo chi chiusa in borsa. Le cose si rincorrono
rapidamente, ma slacciate dalla frenesia usuale che abita le nostre menti.
Colori e forme geometriche, culi e tette, oli su tela e leoni in strada, mcdonald e two beer please, canne rollate in un parco innaffiato perennemente
da qualcuno lassù, e biciclette da noleggiare che non troviamo chi le noleggia
ma metà dei turisti sono in giro con quelle.
Una buona birra, anzi due, chiude
la mattina mentre acqua senza soluzione di continuità cade sulle vie della
capitale delle Baviera.
Ci alziamo.
Facciamo due metri.
G. vede due fantasmi. Io li
fotografo.
Facciamo altri due metri.
Ci fermiamo sotto un portico che
costeggia la strada.
Premiamo rewiu e guardiamo la foto. E poi di nuovo.
G. prima sgrana gli occhi. Poi
ride.
Io rido solo.
E riprendiamo la marcia.
Pensiero di G.: “averli visti, beh succede, ma fotografarli
...”
Pensiero mio: “averli visti, beh succede, ma fotografarli ...”
Ma nessuna parola vibra dalle
nostre corde vocali intrise di luppolo.
Nella pausa pomeridiana G. si
sente un leone, mi dice mentre lavo la lunga camminata sotto la doccia. Esco
dal bagno e dorme. Io m’incarto con Flaiano. E due ore serfano leggiadre fra le
nostre stanche membra. Intorpidite. Esauste.
Il risveglio di G. è da leone.
Doccia di sbrinatura ed giù, all’internetcaffé,
visto che abbiamo dietro il portatile per collegarsi alla rete e prenotare
alberghi. Ventisette minuti per capire (visto che noi, detto ieri, con la
tecnologia saremmo arrivati ovunque) come funziona.
Poi l’arcano viene svelato.
Chiediamo al tipo addetto a questa cosa. Spariamo verso Praga 89 email in un crescendo di eccitazione
e tensione, sicuri del fatto nostro e con la testa a vagliare ogni possibile
alternativa. Un’ora sudaticcia e incredibilmente lunga. Nell’attesa di una
risposta. Di una speranza. Quando la navigazione si esaurisce per mancanza di
credito recitiamo la parte delle persone di buon senso dicendoci che, sicuramente, ci risponderanno all’indomani.
Bravi !
"Se non ci scollegavano ci facevano soci", è l’ultima frase che
percepisco nell’esaurirsi delle mie pile biologiche.
Anche se vorrei ridere per quanto
è vero.
Su Monaco piove.
Su di noi no.
Buonanotte.
8 agosto monaco di baviera
Rewiu è di nuovo in azione. I due fantasmi, alla luce del giorno e
con gli occhi di una mente sveglia se non proprio reattiva e scattante, sono
due giapponesi incartate in un qualche tipo di impermeabile.
Giro off sulla macchinetta fotografica. G. sul tasto della luce. E tutto
riappare come per magia nel velo di un’esile pioggia. Strade assonnate ma
vibranti di vita pur se povere di calore.
Gli uomini sembrano distanti fra loro
mentre si sfiorano nella meravigliosa isola pedonale che racchiude il centro
città. Condomini di un’enorme palazzo. Ma schivi e ben attenti a non
contaminarsi. Lindi e sorridenti. Nel giusto peso. Con il giusto conto corrente.
Macchina. E fica al fianco. Bionda. Algida. Costante. Quasi sempre seriosa.
Valchirie che cavalcano l’onda del benessere e del fitness. Estatiche
manipolazioni genetiche. Prive d’abbronzatura. Pallide lune in un cielo
scostante, perennemente imbronciato, ma pronto ad illuminarle la scena, quando
ne ha voglia, calando sul palco un tenero sole. E a noi non resta che
beatificarle nel nostro personale organigramma del paradiso che continuamente
aggiorniamo.
Pinakoteken der modern assorbe completamente la mattina, facendo
germogliare nel nostro spirito fiori di benessere di rara bellezza. E Purezza.
Nelle inarrivabili espressioni di visionari fuori tempo, luogo, dimensione.
Un ottimo caffè ci riporta sulla
terra. Sono le due del pomeriggio. La città è nostra, seppur in condivisione.
Ce ne fottiamo, e trascinando i piedi su marciapiedi senza una fine battiamo strade
che ancora non conosciamo.
Alle tre break per una birra.
Così alle quattro.
Alle cinque.
E alle sei.
Finché l’internetcaffé non ci appare davanti a ricordarci che abbiamo ancora
una prenotazione da fare. E biglietti da comprare.
Ci sono solo due risposte alle 89 email inviate.
- Beh, un po’ poche, faccio
io.
- Beh un po’ troppe poche, ribadisce G..
Curiosi ed in
attesa, come frequentatori di tavoli verdi al casinò, aspettiamo che la pallina
finisca il suo giro per vedere se il colore che esce è quello puntato. Nero.
Noi rosso. Altro giro. Altra attesa. Nervosa adesso, incalzante, dubbiosa e
quasi rassegnata.
Nero. Bingo!
E come due
cretini che hanno appena vinto la riffa sotto casa ci abbracciamo. Come dopo un
gol. Nella nostra personale rivincita contro chi poi. Ma siamo felici e
vogliamo farlo vedere. E ci stiamo riuscendo, visto che, finite le feste, ci
restano attaccati addosso sguardi ebeti di eternauti avvizziti.
- Stampa il booking.
- Come?
- Print! No?
- Imbecille, print che? Dov’è la stampante?
- Bravo! print che!
Mi volto e mi
dirigo verso la tipa del bancone del caffè+internet
in cerca di spiegazioni, chiedendogli, letteralmente, come posso to stamp (francobollo) the booking ...
Quella mi
guarda inorridita e mi chiede "what?"
Io ripeto la
frase ben tre volte. Quella capisce con chi a da fare e mi chiede dove è posizionata
la mia stazione. Poi mi dice che da lì
non posso stampare. Devo cambiare postazione. È bello, e mi diverto perché ci
sono giorni che non capisco alcunché di quello che mi dicono ma mi esprimo in
un ottimo inglese, altri invece capisco chiaramente quello che mi riversano
addosso ma non riesco a mettere in piedi alcuna frase di senso compiuto o
almeno ben strutturata.
G. è li che ci
guarda.
Cambiamo posto.
Infilo una moneta da un euro nell’apposita fessura che ci dovrebbe garantire
almeno venti minuti di navigazione quando le urla di una tedescona precocemente
invecchiata mi spostano di lato. Inveisce mugolando nella sua, per noi,
incomprensibile lingua. Dopo circa cinque minuti, più o meno, intuiamo che
quella postazione è inservibile.
Chiedo dietro l’euro.
Penso mi mandi
a quel paese. Ma non ho la forza di reagire. Tanto meno G.
Domani dobbiamo
andare. E non abbiamo di che dormire.
In nostro soccorso arriva la ragazza del bar/caffè/internet/etuttoquellochec’èlidentro,
e ci porge un foglio che fornisce informazioni.
E ci voleva
tanto …
Riemersi stralunati
da quella orgia di incomprensioni seguiamo alla lettera le istruzioni.
- Su stampiamo!, fa G.
No, nel
frattempo una nuova email di ritorno
dall’albergo con il quale avevamo gridato bingo ci avverte che devono spostarci
in un altro posto.
Decidiamo di
telefonare.
Volturano la
chiamata nell’albergo che ci dovrebbe ospitare. Per uno strano scherzo del
destino la conversazione fra me e chi mi risponde dall’altra parte del telefono
fila via liscia e senza intoppi. Chiara.
Sarà di
necessità virtù?
Non me ne frega
un cazzo.
Abbiamo il
booking.
G. fornisce i
dati richiesti ed il numero della carta di credito. In due minuti abbiamo il
nostro accredito. Inviamo la stampa. La ritiriamo dove indicato. Paghiamo 70
centesimi. E veloci come puma sprofondiamo sui morbidi sgabelli di quello che
abbiamo eletto posto migliore di Monaco per bere birra.
Pizza per cena
in compagnia di quattro jap. Brutte.
Una meno. Io me la vorrei fare. G. pure.
“Mi dispiace ma io so io e voi non siete un
cazzo”, riecheggia dal cellulare di G.
avvertendolo di un messaggio in arrivo. Io continuo a guardare le jap.
Loro vanno.
Anche noi.
Su Monaco
piove.
Domani alziamo
i tacchi e ce ne andiamo a Praga.
Prima di
dormire fantastichiamo un’ammucchiata con le quattro jap. Orientali
occidentalizzate. Fiche trasversali. Bocche sapienti. Gheishe.
Adesso viene
giù un temporale.
Buonanotte.