mercoledì 12 agosto 2015

ROMA - MONACO DI BAVIERA - PRAGA - BERLINO - ROMA . Capitolo 4


(cronaca di un viaggio in treno avvenuto nell'anno di grazia 2006 - vedi post precedente del 29 giugno 2015)


11 agosto Praga

G. continua a vivere il suo rapporto terremotato con F., in una giostra infernale di saliscendi pirotecnici, incollato al telefono, oramai un prolungamento del suo orecchio che ha acquisito capacità bioniche e forse qualche virus. Maniaci pervertiti di sms  densi, vivi, palpitanti, e conversazioni logorroiche che si esautorano per sfinimento delle corde vocali.
Ma sono lì, distanti eppur vicini l’uno con l’altra, che attraversano lo spazio su onde di tecnologia vibranti di qualcosa che ancora hanno paura di chiamare con il proprio giusto nome. Ogni cosa che attira la sua attenzione è rivolto di rimando a lei, occupata nella città che è troppo vecchia ma non lo dà a vedere, sempre e comunque presente nei suoi neuroni attivi.
E litigano. E si amano. E sorridono. E s’incazzano. E poi ancora. E poi Klimt, Picasso,  Van Gogh, Guttuso, Monet, Rodin, Degas. Mms che corrono sul pianeta terra infrangendosi come onde nelle asperità del cuore di lei, consapevole e vinta di un destino che non può cambiare. Perché poi. Cosa ci resta se non l’amore? Posseduti da quello che la nostra vita ci porge su un piatto d’argento dimentichiamo spesso quello che più conforta e rassicura il nostro cuore, rotto, si, ad ogni esperienza, ma non in frantumi e desideroso di maggior calore. Cosa ci resta se non l’amore. Facce che hanno indossato rughe, ma sempre vestite all’ultima moda; scorci di tramonti in solitudine, i nostri libri, i nostri viaggi, i drink all’aperitivo, case in affitto, motociclette, sogni, notti che sono ormai repliche di repliche stantie e pochi amici seppur veri … cosa ci resta se non l’amore. Perché non chiamarlo con il suo nome quando bussa in questa casa di vento?
E Praga sonnecchia nella mattina.
E G. telefona.
Ed io sono felice.
Prendiamo sempre più coscienza.         
Il tassista all’andata ci ha rubato dei soldi.
Non ce ne frega un cazzo.
Arte moderna ci ha comunque ripagato.
Cosa ci resta se non l’amore? 

11 agosto sera  Praga

Il filetto di Giovanni, delizioso ristorante nascosto in uno dei tanti vicoli, si scioglie nelle nostre bocche affamate mentre due ragazze sedute al nostro fianco, praticamente sulla strada, ci guardano incuriosite e si scambiano sorrisi ed occhiate. Una azzarda un "buon appetito" molto teutonico, ma ingentilito dal sua sguardo divertito e interessato. Noi contraccambiamo l’augurio, anche se loro hanno praticamente terminato. Poco dopo si alzano, mentre noi mangiamo beviamo e ridiamo contemporaneamente, scomposti su sedie sempre in bilico.
"Buon appetito", ripete la  ragazza riccia ed esile, mentre l’altra, bionda e minuta, resta in disparte, forse in un rigurgito di timidezza. Noi restiamo lì, sospesi fra il dire e non dire. Si voltano. Girano l’angolo. E scompaiano fra i flutti di gente che si riversano nel centro.

- Le incontreremo di nuovo più tardi,  filosofeggia G. in uno sfrenato eccesso di ottimismo.

- Certo che si dico io, accordandomi sulla sua stessa lunghezza d’onda, dovuta probabilmente al pessimo vino rosso che stiamo bevendo.

Paghiamo e lasciamo un discreta mancia alla ragazza che ci ha servito e che io ho più volte chiesto in sposa senza alcun risultato.
Camminiamo satolli fra scarpe di tutti i colori e forme, bizzarre e impossibili, stracci ed abiti da sera, gente che esce da teatro e buttadentro di spogliarelli, famigliole con pupi biondi e zinne stratosferiche, code di cavallo su tacchi a spillo e fila ai cessi a pagamento, spettatori dell’orologio astronomico che non funziona secondo noi e polizia a guardia che tutto fili via liscio.
Dietro compenso, s’intende.
Vediamo anche un inglese con due polpacci da giocatore di rugby vestito da infermiera con tanto ti tacchi.
Beviamo tre birre.
E contenti di tutto questo ce ne andiamo a dormire.
Notte.

12 agosto Praga

Ormai mutilati degli arti inferiori chiudiamo l’ultimo giro sulla città con il peggior tempo delle nostre crono. È sabato notte. Su Praga esplodono contemporaneamente mille patte nell’orgia collettiva con minorenni minorate e inconsapevoli. L’orologio per una volta funziona. Un’ ultimo sguardo. Un’ultima birra. Poi ci vendono catrame per hascisc. Ma non ci importa. Quello che stiamo cercando sembra bussare delicatamente alle nostre porte ancora chiuse. Ma più disponibili a farsi violare, a provare.
La notte inoltrata mi coglie alla finestra. G. cerca di dormire. Il silenzio ci avvolge. Parte di noi resta in questo posto. Parte di noi ci saluta alla porta. Senza valige. Senza scarpe. Senza soldi. Ma piena di certezze e libera da vincoli, quasi mai gratuiti.
Buona notte
O quello che resta. 

13 agosto Praga – Berlino

Domenica mattina. Ore otto e mezza, all’incirca. Carichi come somari e con gli stessi ragli d’insofferenza attraversiamo una silente solitudine ammantata di una debole luce.
Arriviamo alla stazione trafelati. Cerchiamo e troviamo il binario che ci riporterà in Germania. Sull’isola che divide le strade ferrate incontriamo due giovani ragazze italiane. Cercano lo stesso treno. Hanno la nostra medesima destinazione. Ci accomodiamo in uno spazio per quattro, nonostante la nostra prenotazione ce ne riservi altri due e loro non ce l’abbiano affatto. Trascorriamo due ore piacevoli in discorsi ameni, e sorrisi defatiganti.
Poi arrivano i legittimi proprietari dei posti. Ma in un battibaleno ci riorganizziamo di nuovo, anche se sparpagliati. Il posto di fianco al mio is free, dico ad un attempata donna tedesca in cui trasuda ancora una recente bellezza nei lineamenti marcati e nella figura esile. Cerca di alzare nel porta bagagli il suo trolley. L’aiuto. Ma mentre lo faccio la mia pesante borsa che contiene libri, soldi, macchinetta fotografica e vari oggetti di ricarica cade sulla testa di un vecchio tedesco con baffi e cappellino. E gli fa male. Questo si alza ed inizia ad urlare in tedesco fra l’indifferenza degli altri viaggiatori, anche dei suoi compagni di viaggio. Poi getta la mia borsa lontano.
Io prima avevo cercato di scusarmi.
Dopo, in un moto di rabbia sotto safety control, mi alzo gli occhiali neri che mi coprono il viso e gli dico in un sussurro“educato se non altro”.
 Il tipo si siede di nuovo come se nulla fosse successo.
La donna che stavo cercando di aiutare alza gli occhi al cielo in segno di “cosa ci vuoi fare? È così che vanno le cose …”;.
G., S. e V. ridono a crepapelle. Io mi siedo. Vorrei riprendere la borsa per leggere qualcosa, ma desisto. Se gli cade di nuovo in testa succede un casino.
Mi accomodo e mi perdo in un viaggio nel viaggio. I miei compagni credo facciano lo stesso.
Sfilano campagne dalla grande finestra pulita del vagone. Come tutte le altre. Quella nel treno da Roma a Monaco era putrida.
Effeesse: cambiano gli amministratori delegati e i bussinnes plans, ma i treni sono sempre gli stessi, e la pulizia uguale.
A Berlino piove a dirotto.
Alla stazione centrale non passa neanche una linea metro.
Prendiamo un taxi.
A destino il tassista scaricando le valigie ci saluta con “ you welcome”.
Questo posto già ci piace.
L’albergo è modesto.
Ma siamo in Alexanderplatz.

E tutto il resto viene confinato nella scatola dei ricordi.

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