... E così sei tornato, farabutto, ficcanaso che non sei altro? Vuoi tornare ad affliggerci e tormentarci, desideri ancora esporre i nostri corpi ai pericoli e costringere i nostri cuori a prendere nuove decisioni? Com'ero felice; potevo sguazzare nel fango e crogiolarmi al sole; potevo trangugiare e ingozzarmi, grugnire e stridere, ed ero libero da pensieri e dubbi: "che devo fare, questo o quello?". Perché sei tornato? Per rigettarmi nell'odiosa vita che facevo prima?
Così il marinaio Elpenoro si rivolge ad Ulisse nell'Odissea dopo che questo l'ha riportato nella sua condizione naturale di uomo che aveva dovuto lasciare per l'incantesimo subito dalla maga Circe, che l'aveva tramutato in scrofa (come gli altri suoi compagni, tutti poi fuggiti alla vista dell'eroe omerico che voleva aiutarli).
I marinai avevano lasciato la loro vita umana, ma erano oltremodo soddisfatti di vivere quella nuova, da animale ... si sentivano più liberi, meno condizionati, affrancati da responsabilità e sgravati dal dover prendere decisioni; erano inoperosi e si beatificano del sole splendente ...
Si sentivano liberi ... perché?
La nostra libertà è vera? Esiste? E se si, in che cosa consiste? La rigidità che comporta il quotidiano, scandito da orari improrogabili, da impegni imperdibili, dall'ossessione del guadagno, dalla necessità del possesso, di avere relazioni consolidate, di gratificarci, di cercare sempre e comunque qualcosa che manca, anche se non si sa bene cosa, è veramente libertà?
Vivere immersi in regole, in una struttura societaria colma di obblighi e straripante di divieti, alcuni veramente ossessivi, che pianifica, volutamente, la nostra vita conducendoci per mano dalla nascita alla morte, è veramente una condizione libertaria?
Le nostre decisioni, volontà, non sono comunque costrette dai nostri vincoli morali insiti nel patto sociale che abbiamo tacitamente sottoscritto?
E se si, dove è che la nostra libertà si manifesta?
Se viviamo in quest'ansia del dover rispettare norme che stabilizzano la nostra socialità a pena di esclusione da questo apparente eden metaforico costruito su misura per l'uomo, siamo veramente liberi?
Se la trasgressione alle regole, alla quale facciamo appello per respirare un "momento" veramente libero dalla conformità appiattita sulla quale viviamo è vista, appunto, come tale, ovvero off rules, l'appartenere al sistema condiviso è una prigione?
E se si, è questo quello per cui l'uomo si è battuto dalla notte dei tempi?
Essere liberi è ormai un paradosso metaforico, che sublimiamo nel nostro intimo enucleandoci virtualmente dalla struttura societaria precostituita?
Se si, perché?
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