Gino rideva nervosamente, dopo aver ricevuto un colpo cruento come un cazzotto da ko sferrato da sotto verso l'alto che colpisce il mento di un boxer mandandolo violentemente ed irrimediabilmente al tappeto; rideva per non piangere, ma l'espressione stralunata che si era stampata sul suo viso tradiva in pieno lo stato confusionale nel quale si trovava in quel lurido momento.
Aveva ascoltato l'avvocato che aveva di fronte in un religioso quanto penitente silenzio e s'aspettava ciò che poi era stato effettivamente proferito pur se in un linguaggio forbito e scevro di una qualsiasi influenza emozionale, pur tuttavia le ultime parole ricevute forarono la narcosi prodotta da quelle precedenti riportandolo improvvisamente alla vita come se gli avessero fatto una puntura di adrenalina in pieno petto mentre si trovava in overdose.
Comprese in quel lampo di lucidità di non avere via d'uscita; avrebbe dovuto affrontare un processo nel quale l'unica certezza sarebbe stata rappresentata dall'incertezza di quanto sarebbe durata la pena che il collegio giudicante gli avrebbe inferto.
L'avvocato ben comprese il momento, ne era assuefatto dalla sua lunga attività penale, ma prima di congedarlo gli rappresentò che se voleva che avesse continuato a rappresentarlo avrebbe dovuto versargli quindicimila euro antecedentemente alla fissazione della prima udienza dove si sarebbe presentato come imputato.
Gino ascoltò anche queste parole in un religioso e penitente silenzio, poi si alzò, gli tese la mano, lo ringraziò e si voltò per uscire dalla monastica stanza dove uno dei principi del foro romano riceveva i suoi clienti finiti nel mirino della legge per averla violata; costava molto, ma se aveva una possibilità di uscire da quel casino non indenne ma quanto meno con una pena minima da scontare magari ai domiciliari lui era uno dei pochi che poteva raggiungerla.
Quando fu fuori respirò una lunga boccata di aria, tirò su la lampo del giaccone, accese una sigaretta e si diresse a passo svelto verso la metropolitana; scivolò tra la gente in stato di trance, urtando qualche passante e la colonnina che divide l'entrata del sottopassaggio che l'avrebbe condotto alla fermata del treno che l'avrebbe riportato a casa.
Scese alla sua fermata nel medesimo stato ipnotico con il quale era entrato alla partenza, assente dal presente, proiettato in un indecifrabile ed oscuro futuro che per quanto si sforzasse non riusciva ad immaginare.
Si fermò al bar, ordinò un negroni, pur essendo appena le undici di mattina, e si sedette fuori, prendendo posto al tavolo rosso con la scritta coca cola sul risicato marciapiede dell'anonima periferia nella quale viveva.
Accese ancora una sigaretta, butto giù due sorsi di quello che avrebbe dovuto essere un negroni, allungò le gambe sotto il tavolo e chiuse gli occhi in cerca di un momento di quiete o di un qualcosa che comunque avrebbe potuto calmare l'agitazione che lo pervadeva; terminò il pessimo drink e ne chiese un altro, e poi un'altro ancora.
I nervi iniziarono a sciogliersi proporzionalmente all'alcol che ingurgitava, facendo transitare il suo stato da narcotico a dolcemente insensibile, o almeno così apparve al suo grande amico Filippo che lo raggiunse non appena fu informato del suo arrivo dal barista che iniziava a preoccuparsi della piega che stava prendendo quella situazione.
Gino lo vide, si alzò con difficoltà dalla sedia e lo abbracciò con la forza che gli restava, biascicando infine qualcosa di incomprensibile nel suo orecchio sinistro.
Filippo comprese all'istante come era andata la visita all'avvocato, lo conosceva da trent'anni e mai l'aveva visto bere di mattina; lo aiutò a sedersi di nuovo e si accomodò anche lui. Ordinò un campari, accese una sigaretta e fissò per un momento il rado traffico di metà giornata restando in silenzio finché Gino non iniziò a piangere.
Filippo aspirò quello che restava della sigaretta, la lasciò poi cadere in terra e bevve in un sorso il suo campari, quindi si alzò, gli si pose dinanzi e guardandolo con fare paterno gli sussurrò: "t'avevo detto io che finiva così ...".
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