(cronaca di un viaggio in treno avvenuto nell'anno di grazia 2006 - vedi post precedente del 29 giugno 2015)
13 agosto Berlino, sera.
Appuntamento al
Check Point Charlie, alla garritta,
trovo fra i messaggi ricevuti. È di mio cugino A. in vacanza da queste parti.
Gli rispondo se
mi sta prendendo per il culo.
“E' un posto famoso …”, continua a
scrivermi convinto.
“Siamo a Berlino da venticinque minuti, una
maggiore precisione ...?” digito sul mio cellulare rosso da donna, con la
scritta Elle che non so bene perché lo
uso, e dicendo a G.:
- Questo è proprio un fattone, guarda che
cazzo di appuntamento ha cercato di darmi … Check Point Charlie, non ci dorme
la notte … che fattone …
- D’altronde è tuo cugino dice laconico G.
mentre tira su i jeans.
- E' proprio tuo cugino. …. E ride.
Viene da ridere
anche a me.
Dieci minuti
dopo lampeggia sul piccolo schermo della mia possibilità di comunicare con persone lontane, che premendo un tasto può diventare uno
specchio, l’indicazione di una linea metro e la stazione di fermata.
Reattivo, se
non altro.
Il rendez-vous è alle cinque e trenta.
Bagnati ma puntuali ci infiliamo in un fast-food
iraniano, credo. Chiediamo due hamburger. Ci consegnano, chiavi in mano, due
dischi volanti. Io ne mangio metà, nonostante non abbia assimilato nulla dalla
sera precedente. G. se lo divora. Nel mentre spuntano in tre. A. e due suoi
amici. Dopo i convenevoli di rito e chiesto dove acquistare erba, Rosenthaler ci viene riferito, viriamo
tutta a dritta al museo giudaico. All’entrata si accodano a noi una pankettona abruzzese che vive a Berlino
da ottobre scorso ed una buffa cinese che parla solo in inglese. Guidati dalla calda e calma mano della
marijuana ci immergiamo nell’epopea degli ebrei berlinesi. Dalle origini
all’olocausto. Fra oggetti e foto, ritagli di giornali e sacre scritture, un
terrificante filmato di nulla in tridimensionale e l’angosciante torre
dell’olocausto, dove entri e una porta ti si richiude dietro, lasciandoti in un
chiaroscuro soffocante, in cui da una fessura in altro filtra un debole luce
sfiancata dalla pioggia e dietro le nostre spalle attaccata al muro c’è una
scala che nessun umano di normali dimensioni potrebbe mai raggiungere. Ci
assale una fastidiosa forma di panico che muore nell’angoscia. Se voleva questo
chi l’ha costruita ha ottenuto il suo risultato.
Almeno con noi
due.
“ Due cose sono infinite. L’universo e la
stupidità degli uomini
(A. Einstein)
All’uscita
troviamo la cinese seduta con la testa fra le mani.
"Cazzo, deve proprio averla colpita questo
posto", penso io mentre mi siedo al suo fianco.
Forse la torre
ha avuto su di lei un effetto ancora maggiore di noi. Abbozzo un timido
tentativo di indagine. La cinese mi risponde che no, ha solo fame ed è stanca.
Mi viene da
ridere.
Poi il resto
della truppa si ricongiunge. Fumiamo altra erba nel tragitto che ci porterà a
cena. Prima però facciamo una tappa a Rosethaler
per rifornirci.
Finiamo in un
ristorante libanese. La caratteristica è questa: ti siedi fuori, poi decidi cosa
mangiare, entri, ordini, passi al frigo e tiri su quello che vuoi, torni a
sederti, ad un certo punto quello dal banco urla il nome del piatto, o dei
piatti, ti alzi e te lo vai a prendere.
Ovviamente
tutto questo avviene nell’incomprensibile, per noi e la cinese, lingua tedesca
che invece la pankettonaabbruzzesemaresidenteaberlino
manovra con estrema disinvoltura.
Abbiamo
ordinato, grazie a lei che ci ha tradotto i menù, carne di agnello in salse
varie. Un’ottima scelta a giudicare dalla voracità con cui i nostri piatti
tornano a mostrare il fondo.
O più
semplicemente fame tossica.
Ma per lo
stomaco cosa cambia?
Voleva ed ha
avuto.
Sapore e gusto
abitano ad altezze per lui irraggiungibili. E probabilmente neanche le vuole
raggiungere.
Chiudiamo, involontariamente,
la notte in un ritrovo gay. Se ne accorge A. guardando le coppie che sono
sedute nel locale. Uomouomo donnadonna.
Poi arriva il
cameriere. Anellino al naso e bicipiti in mostra. Tagli degli occhi orientale.
Parla flebilmente con la pank al
nostro seguito, che contemporaneamente parla con lui in tedesco, con noi nella
sua lingua madre e con la buffa cinese in inglese.
“Come cazzo ci riesce”, dico io, eccitato
ed affascinato dalla pankettona.
“Che cazzo volevi che facesse su quelle cazzo
di montagne in Abruzzo d’inverno …” mi dice sorpreso G., come se
l’equazione sei dell’Abruzzo parli tre lingue sia alla base della matematica
moderna ...
Però, in
effetti ...
Poco dopo
arrivano le birre.
Entra una
coppia etero.
Sono fuori in
due minuti.
Noi da prima.
La metro chiude
le porte.
Noi gli occhi.
Buonanotte.
14 agosto Berlino
Il sole
risplende alto ed imperiale, almeno da queste parti. La canna mattutina permea
di tranquillità i nostri spiriti. La pianta della metro è quasi sempre
capovolta. Ma visto che lo siamo anche noi la cosa funziona a meraviglia.
Arriviamo alla porta di Brandemburgo
giusto in tempo per l’appuntamento con le napoletatine
conosciute alla stazione ferroviaria di Praga. Bacini e via, sul lungo
viale che ci condurrà dall’angelo esultante per la vittoria di una guerra, non
ricordo quale visto che la Germania ne vanta parecchie nel suo curriculum
vitae. Ci arrampichiamo a fatica nel ventre dell’angelo su di una ripida scala
a chiocciola. Io arrivo ultimo. E scendo per primo. E aspetto. Che si rolli una
canna. Che questa giornata prenda la giusta aria. Che il nostro mondo cambi
prospettiva. Che la smettano di spararsi addosso. Per le prime tre posso
garantire. Per l’ultima la speranza è sempre l’ultima a morire.
Ci facciamo una
canna.
Entriamo in
sintonia con gli elementi naturali.
Ognuno di noi
ha il suo punto di vista.
Da qualche
parte del globo però sembra che ancora si sparino.
14 agosto pomeriggio Berlino
Su di una
arabescata nuvola attraversiamo la città, from
est to ovest. Fra pazzesche risate fino alle lacrime e strade sotterranee
da ricercare. O in sopraelevata. Destinazioni che si incrociano in punti di
scambio, valutazioni se prendere l’ autobus, orari ed una birra ogni tanto.
Nella splendida atmosfera berlinese. Fra biciclette e residui del movimento punk, porsche cabriolét e
autobus lindi, corse ai semafori pedonali, che durano non più di tre secondi e
alla nostra velocità rischiamo ogni volta di finire nelle grinfie di qualche
automobilista assetato di sangue, e file agli stessi, perfettamente
incolonnati, smarriti fra i cieli di morbidi palazzi in perfetta sintonia con
l’ambiente che li circonda e suonatori di violino nelle stazioni delle varie
linee della metropolitana.
Le napoletatine
si divertono. Noi anche.
Berlino lo
stesso, sembra.
Le berlinesi
sono bone.
L’erba pure.
Vediamo il
cartellone del Vladimir Luxuria
locale candidato per le amministrative berlinesi.
“Un riposino?” viene buttato lì da
qualcuno nell’ultima pausa prima che scenda la sera su Alexanderplatz.
Ci accordiamo
con V. e S..
Appuntamento
alle dieci.
See you after.
14 agosto notte Berlino
Mangiamo
un’ottima pizza in un quartiere elegante della città. Poi ci sediamo in un lunge bar poco più avanti. Mi
costringono a bere un qualcosa chiamato sexonthebeach,
visto che ne avevano parlato a cena le napoletatine,
esaltandone il gusto.
Era meglio il
mio solito negroni.
Stranamente, o
forse solamente stanchi, non chiediamo il bis o qualcosa di diverso. Dalla
fontana sulla nostra sinistra all’interno del locale arrivano spruzzi d’acqua.
Dalla stufa alla destra un rassicurante calore.
Una splendida
valchiria bionda nei pressi dell’uscita, e in attesa del resto della sua
compagnia, mi guarda più volte. Io contraccambio aggiungendo un sorriso. Arrivano
le sua amiche. Hanno un cenno d’intesa. Poi lei, mentre si volta verso la sua
direzione, mi regala il più adorabile fra i sorrisi che ho ricevuto in regalo
finora durante la mia piccola traversata della mittleeuropa, aggiungendo un delicato saluto con la mano.
Guardo verso
l’orizzonte e sospiro. G. V. e S. sono in silenzio.
Che ci
accompagnerà fino al punto di scambio.
Noi un treno.
Loro un altro.
Bye bye.