In un lurido, arido, e lunare periodo vuoto di senso della realtà disancorato dalla razionalità, pervaso da ambigui e disarmonici istinti suicida, confinato in estenuanti silenzi rotti da frangiflutti cerebrali di pensieri privi di logica senza soluzione di continuità, sorretti, paradossalmente, dall'inerzia fisica consumata nella bolla di un divano divenuto, a sua volta paradossalmente, spazio, ho creduto di vivere. Ho creduto di essere. Ho creduto di avere. Ho creduto di dare. Ho creduto, sopratutto, di credere, cercando rifugio, con spessa vergogna per me stesso, nell'atavico e consunto Dio buono per ogni stagione.
In questa frazione di tempo insignificante in quello che è più significante, la mia ombra è tornata nella caverna per comprendere il senso geometrico di ciò che apparentemente non lo è, immergendosi in un ignoto impalpabile e tetro seppur seducente.
Corroso da un acido neutro riversatosi nelle ramificazioni venose del mio corpo in mutazione, ho iniziato a vedere oltre il confine umanamente invalicabile dell'orizzonte, credendo di vivere in un'allucinazione lisergica perenne.
In vertiginosi sali scendi umorali brevi e dirompenti come scosse di terremoto, ho assaporato sensazioni sconosciute indescrivibili, vibranti in brividi tesi come corde da strumento musicale scaturenti una melodia di rara armonia; se mai la pazzia potesse assumere una forma ero certo che quella forma era ormai la mia.
L'orgiastica deflagrazione sensoriale sembrava non potesse avere più fine, avendo valicato il punto di non ritorno del delirio, quando tanti me stesso mi hanno circondato come cannibali affamati in cerca di preda; se tutto ha una fine, quella sembrava essere la mia.
Nel giro a vite persa in un cielo stellato ho atteso l'inevitabile impatto fissando Orione, avendo infine compreso che si, stavo, finalmente, tornando a casa.
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