... Mentre passeggio davanti al Dome, un poco più tardi, vedo una faccia pallida, pesante - occhi spiritati - e l'abitino di velluto che ho sempre adorato, perché sotto il velluto morbido c'erano sempre i suoi seni caldi, le gambe di marmo, fresche, salde, muscolose. Si leva da un mare di facce e mi abbraccia, mi abbraccia con passione; mille occhi, nasi, dita, gambe, bottiglie, finestre, borse, piatti, tutti ci fissano e noi uno nelle braccia dell'altro, dimentichi.
Mi siedo accanto a lei ed ella parla, un fiume di parole. Frenetici vaneggiamenti di isteria, perversione, lebbra. Non sento una parola, perché lei è bella e io l'amo e ora sono felice e sarei pronto a morire. ...
Henry Miller, Tropico del Capricorno, 1935
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...Passeggiamo per Rue du Chateau, in cerca di Eugène.
Passiamo sul ponte della ferrovia, dove una volta stavo a guardare i treni che uscivano, e dentro mi sentivo male, e a chiedermi dove diavolo lei fosse. Tutto è vago e pieno di fascino, quando passiamo sul ponte. Il fumo che ci sale fra le gambe, i binari che cigolano, semafori nel nostro sangue. Ogni cosa attorno a noi si scompone, si sfalda, e il corpo caldo sotto il velluto caldo mi vuole, mi reclama, è uno strazio. Torniamo nella stessa stanza d’albergo, con cinquanta franchi da spendere, grazie a Eugène. Guardo in cortile ma il fonografo tace. Il baule è aperto e le sue cose son sparse intorno proprio come prima. Si stende sul letto con i vestiti addosso.
Una volta, due volte, tre volte, quattro volte… Ho paura che impazzirà… a letto, sotto le coperte, come è bello toccare di nuovo il suo corpo! Ma per quanto? Durerà questa volta? Ho già il presentimento che non durerà. Mi parla con tono così febbrile, come se non dovesse esserci più un domani. Stai zitta, Mona! Guardami…non parlare! Alla fine si addormenta e io tiro il braccio da sotto il suo corpo. Mi si chiudono gli occhi. Il suo corpo è lì, accanto a me… ci resterà sino al mattino certamente…Era febbraio quando uscii di rada; nevicava che non ci si vedeva. La scorsi per l’ultima volta alla finestra, che mi salutava con la mano. Un uomo, sull’altro della strada, all’angolo, il cappello tirato sugli occhi, la mascella posata sul bavero. Un feto che mi sorveglia. Un feto col sigaro in bocca. Mona alla finestra, che mi salutava con la mano. Col viso pesante, i capelli scarruffati. E ora è una camera cupa, ritmico respiro per branchie, linfa che ancora cola per le sue cosce, caldo odore felino e i capelli di lei in bocca. Gli occhi chiusi. Ci respiriamo in bocca l’uno all’altra, caldi, stretti, l’America è lontana tremila miglia. Non voglio rivederla più. Ho lei a letto con me, che mi respira addosso, i suoi capelli in bocca: un miracolo.
Ormai non può succedere niente, fino al mattino…
...e potremmo continuare all'infinito con queste pagine immortali che oramai leggo da più di venti anni...meravigliose vibrazioni dell'anima disposta ad assecondarle ed a spremerle per berne il succo...
Magari nella notte solitaria accarezzando l'idea di avere lì Mona o Henry...nell'infinita melodia della poesia del silenzio nel quale suonano corpi fusi grondanti di sudore, sapendo che poi "...oramai non può succedere niente, fino al mattino..." nonostante un feto con il sigaro in bocca che sbircia alla finestra....
Presto, Andrea
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