domenica 30 agosto 2015

IL MIO SENSO OTTUSO

Recalcitrante a smettere di pensare continuo a sbattere contro il mio senso ottuso, come in un gioco virtuale per il quale non trovo la password per accedere al livello successivo.
E tento, imperterrito, di cercare di violarlo inanellando un insuccesso dietro.
L'apparente sinossi di ciò che mi è chiaro non trova mai la parola fine, ogni volta che riconsidero il tutto nello schema che vivo al momento che lo faccio.
E' un circolo vizioso, nel quale aggiungo ogni tanto una nuova convinzione che non si rivela tale al momento di riconsiderarla, e il tarlo del dubbio sistematico torna prepotentemente a manifestarsi in tutta la sua virulenza, e il mio senso resta ineludibilmente ottuso.
Non c'è nulla di definito, chiaro, limpido, argomentato. Tutto è sfumato nell'incertezza delle variabili che cambiano e le soluzioni alle equazioni ad un certo punto appaiono illimitate.
Catturo pensieri organizzandoli in file nel mio sistema operativo dentro il mio hardware, cercando, poi, collegamenti fra loro seguendo un istinto matematico di priorità e definizione e, ogni tanto, giungo pure ad un risultato, che si rivelerà, appunto, incompiuto a fronte di una nuova informazione.
L'unica certezza che mi appartiene, a questo punto è chiara, è la mia ottusità nel cercare di vedere nelle cose della mia vita.
Mi resta anche la convinzione di subirle in maniera trascendente, inevitabile, come se nulla potessi nei loro confronti.
Ma il mio senso ottuso sviluppa, di contro, questa ricerca, seppur non ossessiva, per quanto filosofica nell'approccio, e mi stimola di continuo a non mollare.
A volte mi causa sofferenza, a volte mi eleva spiritualmente, a volte mi lascia completamente indifferente, come se avvenisse meccanicamente.

Se caduco o infinito forse non mi verrà mai dato da sapere, e forse è proprio in questo limbo risiede il senso acuto, stella polare e meta dell'homo sapiens in quanto tale ...

giovedì 27 agosto 2015

LA MIA IDENTITA'

Chi sono io?
Un puzzle di medioevali vetri colorati tendenti a formare un immagine che tarda a palesarsi, pur nell'inondazione della luce del mattino che filtra dalla fessura posta in alto della sacra navata, pur nell'offuscato e flebile tramonto che esalta i vetri opachi, pur nel buio della notte che tutto copre, anche il silenzio divino.
Chi sono io?
Un rutilante florilegio di errori ripetuti, postumi e futuri, attuali, sempre uguali, stentorei, seppur non invadenti, maniacali, seppur non ossessivi, ostentati, seppur involontari.
Chi sono io?
Una depressione del lato oscuro lunare, apparentemente disabitato, ma fertile e progredito, vivo, satellite occulto e tecnologico vigilante ed equilibratore del pianeta.
Chi sono io?
Una macchina biologica perfetta nella sua imperfezione, bella nella sua perfezione, misteriosa nel suo intercedere, prevedibile nelle sue debolezze, calibrata nelle sue capacità, esplosiva nella sue elucubrazioni, piatta nelle sue aspettative.
Chi sono io?
Un monarca illuminato, un despota feroce, un imperatore folle, un re ininfluente, un coacervo di tutto ciò,  una miscela instabile in cerca di un detonatore.
Chi sono io?
Una metastasi orgiastica di desideri, sogni, idee, di follie e repressioni, di silenzi perpetui e discorsi logorroici, di nulla di tutto ciò e di tutto quello che ho ricevuto in dono, di perseveranti abissi di solitudine e mute rituali compagnie.
Chi sono io?
Il serpente avvinghiato all'albero nel giardino dell'eden, donatore di conoscenza e per questo vituperato e condannato agli inferi dalle umane sacre scritture non prorompenti dal divino.
Chi sono io?
Un pleonastico senso ottuso, un cadente corpo mortale, un incidente di percorso nella via lattea, un dolore incolore, un'enorme sbadiglio, uno sbaglio, un fulmine senza tuono, una luce accecante, un silente meteorite in cerca di un'attrazione celeste, un carico pendente, una motrice senza rimorchio, un incompiuto.
Chi sono veramente io?


mercoledì 26 agosto 2015

IL MIO TEMPO

Cerco di ricostruire il mio tempo, in un contesto statico, soporifero, inerte, nel lascivo scorrere di quello che consideriamo tale, tracimando dall'ossessione all'osservazione, nel dipanarsi degli anni frantumati nei giri perpetui del pianeta attorno alla sua stella.
Consapevole della caducità  che gli è propria pur nell'apparente infinità, lo riconsidero metabolizzandolo nel suo incedere, lento prima, inesorabile dopo.
Mi corrode, ma non mi da più ansia, è questo il grande cambiamento. Ora sono capace di attendere, calmierando quella frenesia che lo ha contraddistinto, facendolo volgere nell'assaporarlo.
Pur correndo apparentemente mi sembra si dilati, invece, in un senso di un'ampiezza che mi era sconosciuta prima, e riesco a renderlo mio, compagno di un cammino che è entrato in una nuova dimensione, statica, vero, soporifera, vero, inerte, vero.
Ma certa, viva, indissolubile.
Certa, in quanto esistente; viva, in quanto continua; indissolubile in quanto eterea.
Ci nuoto dentro e posso plasmarlo invece di subirlo e lasciarmi plasmare; sembra nulla ma tutto cambia: prospettiva, esegesi, contaminazione.
Uno specchio deformante di una realtà non più assoluta, ma relativa, condizionata, vellutata anche nell'asprezza e morbida anche nella durezza.
Nel suo correre ora il mio tempo non ha più tempo, arrestandosi in momenti che mi portano a ricalcolare la mia posizione nell'universo che muove verso un punto prestabilito, certo nell'incertezza, consapevole nell'ignoranza, pragmatico nel futile.
Il tempo ora ha tempo, quale significato estremo del significante, ancora puerile e ottuso, certo, ma chiaro,  abbagliante nel suo manifestarsi.
Non mi viene più di voltarmi dietro.
La linea dell'orizzonte non è più così lontana, irraggiungibile.
Si può, si deve, si vuole,

Accetto il tempo, ora, nel mio apparente immobilismo, perché muovere non è più dinamico ma celebrale, e questo, questo rende il tutto meno esoterico ...

venerdì 21 agosto 2015

ROMA - MONACO DI BAVIERA - PRAGA - BERLINO - ROMA . Capitolo 6 - FINALE

(cronaca di un viaggio in treno avvenuto nell'anno di grazia 2006 - vedi post precedente del 29 giugno 2015)


15  agosto Berlino

Percorriamo questa sconfinata città in tutta la sua interezza, uscendo e entrando nelle sue viscere, visitando quello che viene incontro a noi con curiosità e sorpresa. Questo immenso cantiere che pulsa di voglia di vivere, ma che non vuole dimenticare, che ha voltato pagina, ma che lascia bene in vista lo stupro continuato e aberrante che ha subito, accogliente e disponibile con i suoi ospiti, gentile, sorridente, cosmopolita, educato.
Un piacevole e continuo palesamento di eccellenti qualità, che affiorano ad ogni minimo contatto e soffio di vento, sotto uno dei cieli più belli che mi sia mai capitato di vedere.


16 agosto Berlino

Quello che resta del muro è lì, dinanzi a noi, in tutta la sua devastante ossessione. Lastre di cemento una accanto all’altra. Invalicabili. Mostruose. Costruite per dividere. Quello che non si può dividere. Che solo il genio perduto della razza umana poteva concepire. A completamento della sua follia. Della sua incapacità di dialogo. Di amare.
Oggi è colorato dai graffiti che testimoniano lo scempio compiuto.
Opere d’arte emotive. Devastanti nella loro semplicità. Comunicative. Espressive. Pacifiche.
Alcuni comperano souvenirs.
Anche noi.
Stancamente.
Sopraffatti.
Vinti.
Mentre prendiamo sempre più coscienza su Berlino annotta.
Persi nei nostri desideri e contaminati da persone momentaneamente lontane anneghiamo in due birre. E nell’erba. E nell’augurio sincero che quello che i nostri occhi oggi hanno visto per le generazioni future non possa mai più diventare un terribile presente.
Notte umida.
La città lentamente si spegne.
Noi lo stiamo facendo.


17 agosto Berlino

 Percorriamo le ultime strade della nostra vacanza trascinandoci sotto un sole solenne. Ebbri di tutto quello che abbiamo ingerito e metabolizzato. Ricostruiamo puzzle mentali durante il nostro intercedere nelle ultime visite. Finiamo a fumare erba sull’incredibile prato di Rosenthaler. Fra indigeni che prendono il sole. Non c’è un turista, per fortuna. Fumiamo e fumiamo. E restiamo lì, a goderci l’ultimo scampolo che Berlino può regalarci nella sua quiete vorace, nella sua calma vellutata,  in quello che percepiamo e che non dimenticheremo.


17 agosto notte Berlino

Fra qualche ora il cielo sopra Berlino vivrà nei nostri ricordi, fra scatti rubati, video, sorrisi, silenzi, lunghe conversazioni epistolari, a viva voce, agnello per cena e camminate sulfuree, pannelli per testimoniare urla che vibrano ancora nel silenzio iridescente di una strada che ne tramanda l’eco.
Ecco. Fra qualche ora un aereo ci riporterà da dove siamo venuti. Dove ci stanno aspettando.
La coscienza ora è chiara. Pulsa di vita propria. Germoglia sul nostro passato. Che non vogliamo dimenticare. Che ha fatto di noi quello che siamo. Ma che ora dobbiamo abbandonare al suo cammino. Cosa ci resta se non l’amore. Che stiamo riportando alla luce. In un restauro senza nevrosi. Armati di pennello. Che toglie polvere che ha oscurato i nostri cieli. Intossicandoli. Avvelenandoli. Ma il vento leggero che ci ha sempre permesso di respirare e restare in vita adesso è divenuto un tornado. Che avanza maestoso in un turbinio di luce e spazza quella nube nera. Aprendo squarci d’azzurro, da dove filtra limpida purezza.
Cadiamo in un breve sonno.
Sogniamo.
Al risveglio F. è là che aspetta.
C. aspetterà un giorno in più.
Ma a questo punto il tempo non ha più la stessa importanza. Non è più tiranno. Non asciuga più le nostre debolezze. Né può strizzarle. Continuerà a tirare via giorni alla nostra vita. Ma sarà piacevole vederlo lavorare.

E quello che conta è che non saremo da soli a farlo.  

mercoledì 19 agosto 2015

ROMA - MONACO DI BAVIERA - PRAGA - BERLINO - ROMA . Capitolo 5 -

(cronaca di un viaggio in treno avvenuto nell'anno di grazia 2006 - vedi post precedente del 29 giugno 2015)

13 agosto Berlino, sera.

Appuntamento al Check Point Charlie, alla garritta, trovo fra i messaggi ricevuti. È di mio cugino A. in vacanza da queste parti.
Gli rispondo se mi sta prendendo per il culo.
E' un posto famoso …”, continua a scrivermi convinto.
Siamo a Berlino da venticinque minuti, una maggiore precisione ...?” digito sul mio cellulare rosso da donna, con la scritta Elle che non so bene perché lo uso, e dicendo a G.:
- Questo è proprio un fattone, guarda che cazzo di appuntamento ha cercato di darmi … Check Point Charlie, non ci dorme la notte … che fattone …
- D’altronde è tuo cugino dice laconico G. mentre tira su i jeans.
- E' proprio tuo cugino. …. E ride.
Viene da ridere anche a me.
Dieci minuti dopo lampeggia sul piccolo schermo della mia possibilità di comunicare con persone lontane, che premendo un tasto può diventare uno specchio,  l’indicazione di una linea metro e la stazione di fermata.
Reattivo, se non altro.
Il rendez-vous è alle cinque e trenta. Bagnati ma puntuali ci infiliamo in un fast-food iraniano, credo. Chiediamo due hamburger. Ci consegnano, chiavi in mano, due dischi volanti. Io ne mangio metà, nonostante non abbia assimilato nulla dalla sera precedente. G. se lo divora. Nel mentre spuntano in tre. A. e due suoi amici. Dopo i convenevoli di rito e chiesto dove acquistare erba, Rosenthaler ci viene riferito, viriamo tutta a dritta al museo giudaico. All’entrata si accodano a noi una pankettona abruzzese che vive a Berlino da ottobre scorso ed una buffa cinese che parla solo in inglese.  Guidati dalla calda e calma mano della marijuana ci immergiamo nell’epopea degli ebrei berlinesi. Dalle origini all’olocausto. Fra oggetti e foto, ritagli di giornali e sacre scritture, un terrificante filmato di nulla in tridimensionale e l’angosciante torre dell’olocausto, dove entri e una porta ti si richiude dietro, lasciandoti in un chiaroscuro soffocante, in cui da una fessura in altro filtra un debole luce sfiancata dalla pioggia e dietro le nostre spalle attaccata al muro c’è una scala che nessun umano di normali dimensioni potrebbe mai raggiungere. Ci assale una fastidiosa forma di panico che muore nell’angoscia. Se voleva questo chi l’ha costruita ha ottenuto il suo risultato.
Almeno con noi due.

Due cose sono infinite. L’universo e la stupidità degli uomini
 (A. Einstein)

All’uscita troviamo la cinese seduta con la testa fra le mani.
"Cazzo, deve proprio averla colpita questo posto", penso io mentre mi siedo al suo fianco.
Forse la torre ha avuto su di lei un effetto ancora maggiore di noi. Abbozzo un timido tentativo di indagine. La cinese mi risponde che no, ha solo fame ed è stanca.
Mi viene da ridere.
Poi il resto della truppa si ricongiunge. Fumiamo altra erba nel tragitto che ci porterà a cena. Prima però facciamo una tappa a Rosethaler per rifornirci.
Finiamo in un ristorante libanese. La caratteristica è questa: ti siedi fuori, poi decidi cosa mangiare, entri, ordini, passi al frigo e tiri su quello che vuoi, torni a sederti, ad un certo punto quello dal banco urla il nome del piatto, o dei piatti, ti alzi e te lo vai a prendere.
Ovviamente tutto questo avviene nell’incomprensibile, per noi e la cinese, lingua tedesca che invece la pankettonaabbruzzesemaresidenteaberlino manovra con estrema disinvoltura.
Abbiamo ordinato, grazie a lei che ci ha tradotto i menù, carne di agnello in salse varie. Un’ottima scelta a giudicare dalla voracità con cui i nostri piatti tornano a mostrare il fondo.
O più semplicemente fame tossica.
Ma per lo stomaco cosa cambia?
Voleva ed ha avuto.
Sapore e gusto abitano ad altezze per lui irraggiungibili. E probabilmente neanche le vuole raggiungere.
Chiudiamo, involontariamente, la notte in un ritrovo gay. Se ne accorge A. guardando le coppie che sono sedute nel locale. Uomouomo donnadonna.
Poi arriva il cameriere. Anellino al naso e bicipiti in mostra. Tagli degli occhi orientale. Parla flebilmente con la pank al nostro seguito, che contemporaneamente parla con lui in tedesco, con noi nella sua lingua madre e con la buffa cinese in inglese.
Come cazzo ci riesce”, dico io, eccitato ed affascinato dalla pankettona.
Che cazzo volevi che facesse su quelle cazzo di montagne in Abruzzo d’inverno …” mi dice sorpreso G., come se l’equazione sei dell’Abruzzo parli tre lingue sia alla base della matematica moderna ...
Però, in effetti ...
Poco dopo arrivano le birre.
Entra una coppia etero.
Sono fuori in due minuti.
Noi da prima.
La metro chiude le porte.
Noi gli occhi.
Buonanotte.    

14 agosto Berlino

Il sole risplende alto ed imperiale, almeno da queste parti. La canna mattutina permea di tranquillità i nostri spiriti. La pianta della metro è quasi sempre capovolta. Ma visto che lo siamo anche noi la cosa funziona a meraviglia. Arriviamo alla porta di Brandemburgo giusto in tempo per l’appuntamento con le napoletatine conosciute alla stazione ferroviaria di Praga. Bacini e via, sul lungo viale che ci condurrà dall’angelo esultante per la vittoria di una guerra, non ricordo quale visto che la Germania ne vanta parecchie nel suo curriculum vitae. Ci arrampichiamo a fatica nel ventre dell’angelo su di una ripida scala a chiocciola. Io arrivo ultimo. E scendo per primo. E aspetto. Che si rolli una canna. Che questa giornata prenda la giusta aria. Che il nostro mondo cambi prospettiva. Che la smettano di spararsi addosso. Per le prime tre posso garantire. Per l’ultima la speranza è sempre l’ultima a morire.
Ci facciamo una canna.
Entriamo in sintonia con gli elementi naturali.
Ognuno di noi ha il suo punto di vista.
Da qualche parte del globo però sembra che ancora si sparino.


14 agosto pomeriggio Berlino

Su di una arabescata nuvola attraversiamo la città, from est to ovest. Fra pazzesche risate fino alle lacrime e strade sotterranee da ricercare. O in sopraelevata. Destinazioni che si incrociano in punti di scambio, valutazioni se prendere l’ autobus, orari ed una birra ogni tanto. Nella splendida atmosfera berlinese. Fra biciclette e residui  del movimento punk, porsche cabriolét e autobus lindi, corse ai semafori pedonali, che durano non più di tre secondi e alla nostra velocità rischiamo ogni volta di finire nelle grinfie di qualche automobilista assetato di sangue, e file agli stessi, perfettamente incolonnati, smarriti fra i cieli di morbidi palazzi in perfetta sintonia con l’ambiente che li circonda e suonatori di violino nelle stazioni delle varie linee della metropolitana.
Le napoletatine si divertono. Noi anche.
Berlino lo stesso, sembra.
Le berlinesi sono bone.
L’erba pure.
Vediamo il cartellone del Vladimir Luxuria locale candidato per le amministrative berlinesi.
Un riposino?” viene buttato lì da qualcuno nell’ultima pausa prima che scenda la sera su Alexanderplatz.
Ci accordiamo con V. e S..
Appuntamento alle dieci.

See you after.


14 agosto notte Berlino

Mangiamo un’ottima pizza in un quartiere elegante della città. Poi ci sediamo in un lunge bar poco più avanti. Mi costringono a bere un qualcosa chiamato sexonthebeach, visto che ne avevano parlato a cena le napoletatine, esaltandone il gusto.
Era meglio il mio solito negroni.
Stranamente, o forse solamente stanchi, non chiediamo il bis o qualcosa di diverso. Dalla fontana sulla nostra sinistra all’interno del locale arrivano spruzzi d’acqua. Dalla stufa alla destra un rassicurante calore.
Una splendida valchiria bionda nei pressi dell’uscita, e in attesa del resto della sua compagnia, mi guarda più volte. Io contraccambio aggiungendo un sorriso. Arrivano le sua amiche. Hanno un cenno d’intesa. Poi lei, mentre si volta verso la sua direzione, mi regala il più adorabile fra i sorrisi che ho ricevuto in regalo finora durante la mia piccola traversata della mittleeuropa, aggiungendo un delicato saluto con la mano.
Guardo verso l’orizzonte e sospiro. G. V. e S. sono in silenzio.
Che ci accompagnerà fino al punto di scambio.
Noi un treno.
Loro un altro.
Bye bye.

martedì 18 agosto 2015

DIARIO PERSONALE - 18 AGOSTO 2015

Non riesco più ad arginare la mia sindrome depressiva, mi sta trascinando via sempre con più violenza, annullando tutti i miei sforzi per farlo.
Sono circa dieci anni che languo su questo fottuto saliscendi, miscelando giorni di isteria, con altri di frenesia, con altri ancora di psicopatica calma, con, infine, altri, rari, di tranquillità, che oramai assimilo alla felicità.
Da qualche tempo, poi, gli altri sono divenuti sempre più rarefatti, sempre più sbiaditi, sempre più lontani, così come ciò che mi dava sollievo, la mia famiglia, i miei amici, i miei libri, il mio studiare senza tregua, il mio lavoro, la mia squadra del cuore, il mio mare, la mia televisione.
Vivo in un isolamento perenne, statico, monolitico e ne sono assuefatto. Nulla mi smuove e nulla mi da più eccitamento, proprio come una fredda pietra che si erge in un deserto a guardia del nulla.
Vivo ogni giorno come il precedente e nulla mi aspetto per il giorno successivo, anche se indicato dal calendario come giorno di festa.
Come uno zombie scevro di volontà ripeto in maniera automatica i miei gesti, i miei rituali, i miei pensieri, che mi corrodono il cervello ossessivamente, rimbalzando in ogni suo angolo, frantumandosi, infine, in un nulla molto ben strutturato.
Ogni tanto rivolgo lo sguardo verso un confine immaginario immaginando di poterlo un giorno oltrepassare studiando mosse appropriate; ma mi ritrovo sempre allo stesso punto di partenza, solo sempre più sfinito e con meno voglia di farlo.
E mi lascio trascinare da questo non senso, privo di logica, privo di razionalità, privo della scintilla che rende un corpo biologico un essere umano.
Pur percependo come la deriva sia oramai prossima non riesco ad ancorarmi per impedirlo, l'ancora è troppo pesante per le mie ridotte forze attuali.
Così ho iniziato a chiedermi cosa sarà della mia vita e non ricevendo nessuna risposta ho iniziato a fissare obiettivi a medio termine per darmi una ragione per continuare; ma più li raggiungo, quasi sempre, più non ne ricevo dietro nulla, è come se quello che facessi sia così scontato, più devo fissarne altri a breve cercandone non fra gli impossibili ma fra gli improbabili, per lottare contro i miei mulini vento che sono illimitati.
Ma questa ossessione non mi sembra altro che un'altra fra le mie e stento a credere che mi porterà a un qualsiasi risultato soddisfacente.
Percorro una strada apparentemente sicura in una giungla insicura e qualche volta tutto questo mi fa paura; non riesco a vedere nel mio futuro e dimentico in fretta il passato, vivendo nella nenia del presente.
Ci saranno tenebre o luci?
Forse, dico forse, questa è l'unica risposta che non voglio avere ...





giovedì 13 agosto 2015

NA' SCARPA E NA' CIAVATTA

Fa’ ncallo da madonna … Sto co’ sto vestito tutto punto a girà pe’ Roma co’ la moto che me paro un matto … ‘Ndo me giro me giro vedo gente smutannata e tutti, proprio tutti, stanno ‘nciavatte … io sotto ar casco c’ho la testa che me brucia … a camicia bianca sotto la giacca blu è pallida de sudore … i piedi dentro i mocassini, seppur estivi, me vanno a foco .. e più guardo quelli ‘nciavatte e più me rode er culo.


Ogni semaforo n’agonia lenta, na’ tortura.

Poi me viene in mente na’ cosa, forse perché i neuroni sotto ar casco stanno in ebollizione e la maggior parte se so’ bruciati irreversibilmente; insomma, m’è tornato in mente Brutti Sporchi e Cattivi, mirabile film con Manfredi (che avrebbe meritato l‘oscar) sulla Roma periferica fine anni cinquanta, fatta de baracche in lamiera su strade sterrate che diventavano fango co’ la pioggia e deserto porveroso cor sole.

E la dentro gente che viveva d’espedienti; ‘nsomma de lavora’ nun se ne parlava proprio, parte perché nun c’era parte perché nun c’era fantasia.

Ner firm c’è na scena in cui Manfredi, ubriaco già de primo mattino, trascinando i piedi pe tentà de camminà se perde na’ scarpa dentro ‘ntombino, me pare, e continua co’ na’ scarpa sola, e m’è tornato in mente er detto: Na’ scarpa e na’ ciavatta.

E’ un modo de dì romano pe indica chi c’ha poco o niente … Na’ scarpa e na’ ciavatta … t’arangiavi co’ quello che c’avevi se c’avevi.

Stò a sto’ semoforo sur lungo Tevere … ar ponte che porta dritto a Porta Portese uscenno da Testaccio; sull’argine der fiume che vedo sotto de me s’entravedono baracche e resti de baracche, dove nun ce metterei a firma che ce vivano solo extracomunitari e sbandati in generale … è vero, so’ zozzi, so’ brutti, no o so se so’ cattivi … ma stanno ‘nciavatte … o co’ na’ scarpa e na’ ciavatta.

Ma quanno er semaforo me da er via libera e riparto me viè da pensa che pure tanta brava gente oggi se trova in condizioni disperate o al limite dell’indigenza pe sto’ periodo storico riluttante ar benessere ‘mpò pe’ tutti e oramai preda di pochi … Na’ scarpa e na’ ciavatta … ma no perché fa callo … e d’improvviso tutte le bestiemme dette strada facenno me tornano dietro e me schiaffeggiano … ma no’ pe l’insolenza verso Nostro Signore, ma pe mancanza de rispetto verso me stesso che nun apprezzo quello che oggi ancora ho …

mercoledì 12 agosto 2015

ROMA - MONACO DI BAVIERA - PRAGA - BERLINO - ROMA . Capitolo 4


(cronaca di un viaggio in treno avvenuto nell'anno di grazia 2006 - vedi post precedente del 29 giugno 2015)


11 agosto Praga

G. continua a vivere il suo rapporto terremotato con F., in una giostra infernale di saliscendi pirotecnici, incollato al telefono, oramai un prolungamento del suo orecchio che ha acquisito capacità bioniche e forse qualche virus. Maniaci pervertiti di sms  densi, vivi, palpitanti, e conversazioni logorroiche che si esautorano per sfinimento delle corde vocali.
Ma sono lì, distanti eppur vicini l’uno con l’altra, che attraversano lo spazio su onde di tecnologia vibranti di qualcosa che ancora hanno paura di chiamare con il proprio giusto nome. Ogni cosa che attira la sua attenzione è rivolto di rimando a lei, occupata nella città che è troppo vecchia ma non lo dà a vedere, sempre e comunque presente nei suoi neuroni attivi.
E litigano. E si amano. E sorridono. E s’incazzano. E poi ancora. E poi Klimt, Picasso,  Van Gogh, Guttuso, Monet, Rodin, Degas. Mms che corrono sul pianeta terra infrangendosi come onde nelle asperità del cuore di lei, consapevole e vinta di un destino che non può cambiare. Perché poi. Cosa ci resta se non l’amore? Posseduti da quello che la nostra vita ci porge su un piatto d’argento dimentichiamo spesso quello che più conforta e rassicura il nostro cuore, rotto, si, ad ogni esperienza, ma non in frantumi e desideroso di maggior calore. Cosa ci resta se non l’amore. Facce che hanno indossato rughe, ma sempre vestite all’ultima moda; scorci di tramonti in solitudine, i nostri libri, i nostri viaggi, i drink all’aperitivo, case in affitto, motociclette, sogni, notti che sono ormai repliche di repliche stantie e pochi amici seppur veri … cosa ci resta se non l’amore. Perché non chiamarlo con il suo nome quando bussa in questa casa di vento?
E Praga sonnecchia nella mattina.
E G. telefona.
Ed io sono felice.
Prendiamo sempre più coscienza.         
Il tassista all’andata ci ha rubato dei soldi.
Non ce ne frega un cazzo.
Arte moderna ci ha comunque ripagato.
Cosa ci resta se non l’amore? 

11 agosto sera  Praga

Il filetto di Giovanni, delizioso ristorante nascosto in uno dei tanti vicoli, si scioglie nelle nostre bocche affamate mentre due ragazze sedute al nostro fianco, praticamente sulla strada, ci guardano incuriosite e si scambiano sorrisi ed occhiate. Una azzarda un "buon appetito" molto teutonico, ma ingentilito dal sua sguardo divertito e interessato. Noi contraccambiamo l’augurio, anche se loro hanno praticamente terminato. Poco dopo si alzano, mentre noi mangiamo beviamo e ridiamo contemporaneamente, scomposti su sedie sempre in bilico.
"Buon appetito", ripete la  ragazza riccia ed esile, mentre l’altra, bionda e minuta, resta in disparte, forse in un rigurgito di timidezza. Noi restiamo lì, sospesi fra il dire e non dire. Si voltano. Girano l’angolo. E scompaiano fra i flutti di gente che si riversano nel centro.

- Le incontreremo di nuovo più tardi,  filosofeggia G. in uno sfrenato eccesso di ottimismo.

- Certo che si dico io, accordandomi sulla sua stessa lunghezza d’onda, dovuta probabilmente al pessimo vino rosso che stiamo bevendo.

Paghiamo e lasciamo un discreta mancia alla ragazza che ci ha servito e che io ho più volte chiesto in sposa senza alcun risultato.
Camminiamo satolli fra scarpe di tutti i colori e forme, bizzarre e impossibili, stracci ed abiti da sera, gente che esce da teatro e buttadentro di spogliarelli, famigliole con pupi biondi e zinne stratosferiche, code di cavallo su tacchi a spillo e fila ai cessi a pagamento, spettatori dell’orologio astronomico che non funziona secondo noi e polizia a guardia che tutto fili via liscio.
Dietro compenso, s’intende.
Vediamo anche un inglese con due polpacci da giocatore di rugby vestito da infermiera con tanto ti tacchi.
Beviamo tre birre.
E contenti di tutto questo ce ne andiamo a dormire.
Notte.

12 agosto Praga

Ormai mutilati degli arti inferiori chiudiamo l’ultimo giro sulla città con il peggior tempo delle nostre crono. È sabato notte. Su Praga esplodono contemporaneamente mille patte nell’orgia collettiva con minorenni minorate e inconsapevoli. L’orologio per una volta funziona. Un’ ultimo sguardo. Un’ultima birra. Poi ci vendono catrame per hascisc. Ma non ci importa. Quello che stiamo cercando sembra bussare delicatamente alle nostre porte ancora chiuse. Ma più disponibili a farsi violare, a provare.
La notte inoltrata mi coglie alla finestra. G. cerca di dormire. Il silenzio ci avvolge. Parte di noi resta in questo posto. Parte di noi ci saluta alla porta. Senza valige. Senza scarpe. Senza soldi. Ma piena di certezze e libera da vincoli, quasi mai gratuiti.
Buona notte
O quello che resta. 

13 agosto Praga – Berlino

Domenica mattina. Ore otto e mezza, all’incirca. Carichi come somari e con gli stessi ragli d’insofferenza attraversiamo una silente solitudine ammantata di una debole luce.
Arriviamo alla stazione trafelati. Cerchiamo e troviamo il binario che ci riporterà in Germania. Sull’isola che divide le strade ferrate incontriamo due giovani ragazze italiane. Cercano lo stesso treno. Hanno la nostra medesima destinazione. Ci accomodiamo in uno spazio per quattro, nonostante la nostra prenotazione ce ne riservi altri due e loro non ce l’abbiano affatto. Trascorriamo due ore piacevoli in discorsi ameni, e sorrisi defatiganti.
Poi arrivano i legittimi proprietari dei posti. Ma in un battibaleno ci riorganizziamo di nuovo, anche se sparpagliati. Il posto di fianco al mio is free, dico ad un attempata donna tedesca in cui trasuda ancora una recente bellezza nei lineamenti marcati e nella figura esile. Cerca di alzare nel porta bagagli il suo trolley. L’aiuto. Ma mentre lo faccio la mia pesante borsa che contiene libri, soldi, macchinetta fotografica e vari oggetti di ricarica cade sulla testa di un vecchio tedesco con baffi e cappellino. E gli fa male. Questo si alza ed inizia ad urlare in tedesco fra l’indifferenza degli altri viaggiatori, anche dei suoi compagni di viaggio. Poi getta la mia borsa lontano.
Io prima avevo cercato di scusarmi.
Dopo, in un moto di rabbia sotto safety control, mi alzo gli occhiali neri che mi coprono il viso e gli dico in un sussurro“educato se non altro”.
 Il tipo si siede di nuovo come se nulla fosse successo.
La donna che stavo cercando di aiutare alza gli occhi al cielo in segno di “cosa ci vuoi fare? È così che vanno le cose …”;.
G., S. e V. ridono a crepapelle. Io mi siedo. Vorrei riprendere la borsa per leggere qualcosa, ma desisto. Se gli cade di nuovo in testa succede un casino.
Mi accomodo e mi perdo in un viaggio nel viaggio. I miei compagni credo facciano lo stesso.
Sfilano campagne dalla grande finestra pulita del vagone. Come tutte le altre. Quella nel treno da Roma a Monaco era putrida.
Effeesse: cambiano gli amministratori delegati e i bussinnes plans, ma i treni sono sempre gli stessi, e la pulizia uguale.
A Berlino piove a dirotto.
Alla stazione centrale non passa neanche una linea metro.
Prendiamo un taxi.
A destino il tassista scaricando le valigie ci saluta con “ you welcome”.
Questo posto già ci piace.
L’albergo è modesto.
Ma siamo in Alexanderplatz.

E tutto il resto viene confinato nella scatola dei ricordi.